Recensione di Gaspere Agnello su “Cosi mai visti né
‘ntisi nella Sicilia del ‘600” di Eugenio Amaradio
Eugenio Amaradio è un noto Avvocato di Enna che si è
già cimentato con la letteratura avendo già pubblicato nel 2006, con la
Lussografica, “La ribellione di Castrogiovanni contro il Vescovo di Catania”
con le pregevoli illustrazioni di Bruno Caruso che ne fanno un libro
d’arte.
Nel 2011, con ilmiolibro del Gruppo Editoriale
l’Espresso ha pubblicato un altro libro storico “Ero Balilla” ‘In Sicilia nel
1943’ in cui si parla dello sbarco degli Americani in Sicilia con particolare
riferimento alla occupazione della città di Enna che era sede della sesta
armata e quindi obiettivo militare privilegiato per i bombardamenti dei
terribili quadrimotori delle forze anglo-americane.
Ora ritorna sulla ribellione della città di
Castrogiovanni del 1627 contro il Vescovo di Catania Innocenzo Massimo
Romano con un romanzo storico “Cosi mai visti né ‘ntisi” ‘Nella Sicilia del
‘600’ ancora con i tipi della casa editrice Lussografica di Caltanissetta
e con i pregevoli disegni di Bruno Caruso.
Ottima l’idea di mettere all’inizio di alcuni
capitoli, i versi del poemetto di Fra Gieronimo Pane e Vino che tratta,
appunto, della rivolta di Castrogiovanni.
Il libro contiene una postfazione del Professore
Liborio Termine che è ampiamente esaustiva e che, da sola, basterebbe a
spiegare la bellezza e il senso del libro.
Il Professore Termine parlando della normalità e della
tendenza dell’ennese a seppellire il ricordo della storia che considera
‘naturalità’, afferma:
“Credo che questa caratteristica spieghi la ragione
per cui l’epica non si adatti all’ennese, perché non trova innesti né nel modo
in cui snoda la sua vita nè nella visione che della vita egli ha. Non
sorprende, dunque, se all’ennese manca un sentire romanzesco e perciò non
riesce a fare dell’esistenza, delle trame stesse del suo svolgersi, “romanzo”.
Non mi sembra davvero un caso che sia proprio Savarese
a darne ampia dimostrazione: lui che, avendo assunto ciò che è propriamente
ennese come natura narrativa, non è mai riuscito a farne un vero romanzo.
AMARADIO CI RIESCE, IL ROMANZO LO FA. E ci riesce
proprio perché, preso il “fatto”, non lo abbandona un momento. Lo assume come
struttura primaria, “fonte” che punteggia lo svolgimento narrativo e, allo
stesso modo, “fonte” dell’invenzione romanzesca che non vi è mai esterna né vi
si sovrappone. Si istituisce così un’architettura che ha qualcosa di eccentrico
e di intrigante, e che a me, ennese, siciliano, risulta molto familiare”.
“La struttura, continua il Professore
Termine, molto mi ricorda i quadri del cartellone del cantastorie ciascuno
dei quali si apre al “cunto”, che nella voce e nel corpo del cantastorie si fa
narrazione e drammatizzazione. Allo stesso modo, appunto, in cui, nel testo di
Amaradio, il reperto storico, il documento che dà certezza del fatto, nel suo
fare da “introduzione”, diventa via via sipario e scenografia che scopre e
anima lo svolgimento romanzesco a cui è sostanza l’uomo, il suo sentire, il suo
patire”
Detto questo voglio subito entrare nel cuore del libro
che, parlandoci della rivolta di Castrogiovanni contro il Vescovo di
Catania Innocenzo Massimo R omano, ci descrive la società siciliana del
seicento che vive sotto il terrore della doppia inquisizione della Chiesa e del
Governo spagnolo. Il quadro che ne viene fuori è desolante e drammatico e fa
impallidire la narrazione manzoniana che descrive una società lombarda
ingiusta, oppressiva, mafioseggiante che, però, non ha i connotati terribili e
assurdi dell’inquisizione.
Le vessazioni che subisce il popolo di Castrogiovanni
sono inaudite e il Vescovo, con la scusa di voler raddrizzare i costumi della
popolazione, in ossequio al Concilio di Trento, impone nuovi balzelli che la
gente non può sopportare per cui è costretta alla ribellione che scoppia
nell’anno 1627.
Lo stesso prelato Don Cesare afferma a tal proposito:
“Certo bisogna pur riconoscere che la responsabilità di quanto stava accadendo
era del Vescovo e del suo Assessore Fiscale. Costoro avevano perseguito il loro
scopo di procacciarsi del denaro a tutti i costi e a scapito della povera
gente. Era come se avessero voluto estrarre altro succo da un limone spremuto”.
Le accuse che venivano mosse agli abitanti di
Castrogiovanni erano di concubinaggio, di avere rapporti sessuali
prematrimoniali, di convivenze illegittime, di figli avuti fuori dal matrimonio
e di altre irregolarità che, in quel tempo, erano normali e accettate da tutti.
Il Concilio di Trento aveva proibito tutte queste illegittimità e il Vescovo,
forte della Controriforma, aveva sanzionato i cattivi costumi con ammende esose
che dovevano servire a rimpinguare le casse della Curia. E’ da dire che, ancora
oggi, il concilio di Trento tenta di far valere le proprie antiche ragioni.
Nella vicenda si inserivano anche le lotte fratricide
dei baroni e nobili del tempo per la conquista del potere, i soprusi dei
potentati locali, le condizioni di vita miserevoli della gran massa della
popolazione.
Per descrivere la società del tempo ci soccorre ancora
Don Cesare che afferma:
“…che i tempi erano cambiati, che ormai non c’era
alcun ordine sociale, né educazione e rispetto reciproco, che tutti si
trovavano esposti alle angherie dei più forti…”
“….La Sicilia, forse per la sua posizione al centro
del Mediterraneo, era sostanzialmente indifesa per cui periodicamente era stata
invasa dal potente di turno. I vari dominatori il più delle volte avevano
sfruttato le sue ricchezze e non si erano interessati di altro. Anzi l’avevano
abbandonata al suo destino nelle mani dei piccoli potentati locali.
Costoro, in eterna lotta tra di loro, nel vano
tentativo di prevalere uno sull’altro, non erano mai riusciti a liberarsi dagli
stranieri. Spesso avevano chiamato i n loro aiuto un altro straniero che
immancabilmente era diventato il nuovo dominatore.
La più grave conseguenza di tutto ciò era stata la
carenza di un potere centrale che avesse potuto efficacemente governare. Così
era rimasta in vigore solo la legge del più forte e il pesce più grande aveva
mangiato sempre il pesce più piccolo.
Per avere un minimo di giustizia e protezione si era
dovuti sottomettere al vicino più forte che, a sua volta, aveva messo in atto
angherie ancora più pesanti. L’ordine e la giustizia erano diventati parole
vacue e la convivenza sociale era andata allo sfascio.
Questa volta era venuto un Vescovo ad angariare la
povera gente. Domani sarebbe potuto venire magari un nobile, come questo Barone
Petroso. E poi chi sa altro”.
Do Cesare, dopo avere ricordato la ribellione, che
aveva cercato di fermare, “confessò che in cuor suo l’aveva approvata. Aveva
giustificato l’ira del popolo che aveva subìto oltre alle angherie del Vescovo
anche i soprusi della sua corte. Non si potevano e non si dovevano più
accettare passivamente le ingiustizie altrui. Bisognava lottare con tutti i
mezzi perché si garantisse l’ordine anche in questa terra martoriata”.
Intanto il popolo, spinto anche da alcuni notabili che
avevano interesse a cambiare l’ordine costituito, si ribella e costringe a
fuggire da Castrogiovanni il Vescovo che ivi si trovava in visita pastorale
saccheggiando palazzi e le prigioni da cui furono fatti uscire i carcerati.
La reazione fu violenta. Viene inflitta la scomunica e
viene mandato a Castrogiovanni il giudice Antonio Costa che, con la sua
ferocia, attrezza la camera di tortura e manda in carcere nobili e popolani i
quali ultimi vengono duramente condannati mentre i nobili escono dalle patrie
galere pagando qualche multa.
Alla fine il nuovo Vicerè Francesco Fernandez de la
Cueva concede la grazia ai condannati, viene ritirata la scomunica e a
Castrogiovanni ritorna la pace una pace armata per evitare altre questioni che
si vedono all’orizzonte. Si vis pacem, para bellum.
Questa è la nervatura principale del libro che però è
molto ricco, complesso, e riesce in maniera pregevole a dare la dimensione del
secolo terribile che è il seicento della controriforma e dell’inquisizione. La
narrazione si svolge a incastro ed è una composizione di storie che potrebbero
vivere ognuna a se stante ed essere oggetto di racconti lunghi.
L’uccisione del tenente Remirez occupa lo spazio di un
vero e proprio romanzo autonomo da cui viene fuori uno spaccato di quella
società dominata dall’usura, dalla corruzione, da rapporti di uomini del potere
con donne di ogni tipo, da vendette, da intrighi, da una giustizia sommaria
capace di fare morire nelle patrie galere persone che nulla avevano fatto di
illegale.
Il Capitano Filippo Trifirò conduce le indagini e fa
una lista di sospettati che avrebbero potuto avere interessi a uccidere il
tenente e tra questi c’è Turiddu Trebastoni, la cui madre era l’amante del
Tenente, Marino Giacona usuraio, Gigino Zappalà, don Giuseppe Ribera la cui
donna era stata importunata dal Tenente, Matteo Filino che viene arrestato, che
confessa il delitto per poi ritrattare. Matteo, forse innocente, viene lasciato
nel castello di Castrogiovanni dove si suicida, senza che nessuno conoscerà mai
la verità sula morte del Tenente Ramirez.
Un altro capitolo del romanzo è la storia di Agata e
dell’amore di Gilberto per questa delicata fanciulla.
La storia è veramente drammatica e lo scrittore
Amaradio ci riserva tante sorprese e colpi di scena che mi ha riportato alla
fantasia sfrenata di Camilleri che inventa situazioni impensabili.
Le pagine sull’amore di Gilberto per Agata sono
certamente le più toccanti del libro e la fine della ragazza è quella che si
addice alla società del XVII secolo in cui sarebbe stato inconcepibile che un
nobile potesse sposare una popolana e questo anche se i nobili, in fondo, erano
peggiori degli altri.
Don Filadelfio sostiene che “Un gentiluomo era tale se
aveva una moglie e dei figli legittimi e una o più mantenute con dei figli
illegittimi, che aveva adeguati e consistenti debiti, principalmente di gioco;
che aveva o aveva avuto parecchi procedimenti giudiziari e in particolare
una causa di divisione ereditaria o , comunque, civile della durata di almeno
un ventennio”.
Agata fa un figlio con il suo promesso sposo, che
muore prematuramente. Per questo suo peccato viene incarcerata e liberata da
Don Federico che le dà ospitalità nella sua casa dove il figlio di Don Federico
se ne innamora senza che questi abbia la forza di manifestare il proprio amore.
Poi Agata torna alla sua famiglia e subisce tante amare vicissitudini che la
portano alla morte, dopo che Gilberto le manifesta il proprio amore che
era ricambiato in silenzio dalla povera Agata.
Io sono certo che gli attenti lettori del libro
sapranno cogliere la bellezza di queste pagine manzoniane che ci rivelano uno
scrittore attento, consumato nell’arte dello scrivere, smaliziato, che sa usare
anche la tecnica del giallo per tenere appeso il lettore al libro e ai fatti
narrati di cui vuole conoscere la conclusione.
Ho letto gli altri libri di Amaradio che ho anche
recensito positivamente ma questo lavoro lo consacra scrittore a tutto tondo
anche perché, come ha scritto, il Professore Termine, Amaradio ha dato alla
città di Enna il suo libro. Un libro aggiungo io che ridà alla città di
Enna la sua dimensione ‘epica’ e il senso della ribellione che ha radici
profonde nel suo Euno che seppe ribellarsi all’occupazione dei romani.
E poi è da aggiungere che il libro è frutto di una
ricerca storica attenta e meticolosa che ha portato l’autore fino ai segreti
archivi del Vaticano e agli archivi provinciali e regionali della Sicilia per
attingere notizie sul Vescovo Innocenzo Massimo Romano e su quella rivolta di
popolo che dà senso e dignità a un popolo che trova la sua ragion d’essere
nella storia antica e recente, appunto in Euno e in coloro che hanno assaltato
il Castello per cambiare la loro vita e liberare i loro prigionieri, anche se
in Sicilia i processi di cambiamento durano secoli.
L’assalto alla Bastiglia, che ha dietro l’illuminismo,
è più conosciuto ed è diventato simbolo della nuova era borghese, l’assalto al
Castello di Enna, meno noto, assurge a simbolo di riscatto, a simbolo della
dignità di un popolo che il libro epico di Amaradio vuole valorizzare e
considerare nel suo giusto valore simbolico.
E infine ritornando alla forma di cui parla Liborio
Termine a cui la struttura del libro ricorda i cartelloni dei cantastorie io
aggiungerei che il libro contiene in esso tanti soggetti teatrali o cinematografici.
Si può trarre un’opera cinematografica dalla storia della rivolta, un altro
film può essere tratto dalla storia di Agata e Gilberto, che ha qualche
tratto in comune con la storia di Renzo e Lucia soprattutto per la cornice
storica in cui i due avvenimenti si sono consumati. Un giallo potrebbe essere
tratto dalla storia dell’uccisione del tenente e dalle indagini per scoprire
l’assassino.
Per le scene ha provveduto lo stesso Amaradio che, in
certi momenti, raggiunge livelli eccezionali.
L’incipit del libro ha sapore sciasciano ed è una vera
e propria scena da film: “Angilo arrancava dietro le due mule che,
sovraccariche di paglia, s’inerpicavano lungo il rapido sentiero della
Scalazza. Questo era una scorciatoia che portava al paese molto più rapidamente
della trazzera che scorreva sinuosa sui fianchi del monte.
Le cicale, che sino a qualche ora addietro con il loro
stridio avevano assordato le sue orecchie, ora tacevano. Il sole andava
tramontando dietro le colline e indorava la massiccia mole tufacea della
montagna.
Di tanto intanto, allorchè egli non riusciva a tenere
il passo delle mule per lo spossamento accumulato in una giornata di duro
lavoro, si appendeva alla coda di una di esse e si faceva tirare nella salita.
Ma appena si accorgeva che la mula cominciava ad affaticarsi eccessivamente,
lasciava la presa e ricominciava a seguirla stancamente, cercando di non farsi
distanziare.
Spesso si girava a guardare se suo fratello Mariano,
che seguiva con altre due mule altrettanto cariche, tenesse il suo passo. Con
una grossa vociata, lo richiamava a non restare troppo indietro”.
Un regista che volesse fare un film troverebbe la
scena bella e descritta da uno scrittore che diventa pittore; e di questi
quadri è pieno il bellissimo libro di Eugenio Amaradio che merita una platea
nazionale.
Chiuppano, lì 24.8.2015
Gaspare Agnello
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