Dopo aver pubblicato nel 2006 il saggio "La Ribellione di Castrogiovanni contro il Vescovo di Catania", Eugenio Amaradio torna sull'argomento scrivendo un romanzo storico in cui interagiscono personaggi storici e no. Il volume, pubblicato dalle Ed. Lussografica di Caltanissetta, è in vendita al prezzo di copertina di €. 16,00 presso la casa editrice e presso tutte le librerie ed i siti internet dedicati quali Mondadori. IBS, Feltrinelli etc.
mercoledì 18 novembre 2015
PRESENTAZIONE AD ENNA DEL LIBRO "COSI MAI VISTI... ETC"
INTERVISTA A "LA SICILIA" PER LA PRESENTAZIONE DEL LIBRO AD ENNA
INTERVISTA ALL’AVV. EUGENIO AMARADIO PER “LA SICILIA” IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DI "COSI MAI VISTI ..." AD ENNA
Avvocato,
ci vuole narrare come è venuto a conoscenza dell’episodio storico da cui ha
tratto il saggio
intitolato “La
Rivolta di Castrogiovanni contro il Vescovo di Catania del 1627”?
La Città di Castrogiovanni, oggi Enna, si rivoltò nel
1627 contro il Vescovo di Catania Innocenzo Massimo. Questo episodio storico era
sconosciuto ai più. Ne venni a conoscenza leggendo la Storia di Enna di Paolo
Vetri che divulgai. Avendo anche appreso così che esisteva un coevo poemetto
manoscritto in rima siciliana di tale Fra Gieronimo Pane e Vino e che questo
documento era custodito presso la Biblioteca Comunale di Enna, ne ottenni
copia, lo trascrissi e interpretai.
Seppi che il Vescovo Innocenzo era venuto a
Castrogiovanni in visita pastorale per
la “correzione dei costumi” e che lo stesso aveva indetto una nuova
inquisizione su tutti coloro i quali “s’havessero pratticato prima del suo
sponsalizio stante detto Vescovo haver stabilito una gravosa pena pecuniaria”
che molti non pagavano per cui “prendevano le moglie, stante gli huomini si ritiravano
nelle campagne e le carceravano … con operando la Corte molte discolerie …” per
cui il popolo si ribellò.
Continuate le ricerche, cominciai a scrivere una esposizione
sintetica dei fatti, con alcune note per inquadrare il periodo storico e con
qualche riferimento anche agli effetti del Concilio di Trento sugli usi e
costumi delle nostre popolazioni.
Il Maestro Bruno Caruso si entusiasmò della storia e
realizzò una serie di magnifici disegni che trasformarono il mio scritto in un’opera
d’arte. Così mi fu facile pubblicare nel 2006 il mio lavoro intitolandolo “La
Ribellione di Castrogiovanni contro il Vescovo di Catania”. Tale opera venne
apprezzata dal Prof. Giuseppe Giarrizzo della Facoltà di Lettere
dell'Università di Catania che ne sollecitò la presentazione ai Benedettini.
Tra i vari riconoscimenti non posso non citare una cortesissima nota del Prof.
Adriano Prosperi della Normale di Pisa.
Poi, come è
arrivato al romanzo storico relativo intitolato “Cosi mai visti né ‘ntisi nella
Sicila del ‘600”?
Già allora, contestualmente alla stesura di quell'opera,
mi proposi di allargare la trattazione dell'argomento alternando, a singoli
episodi della stessa, la narrazione di un romanzo contenente un'esposizione di
fatti e avvenimenti, il più delle volte verosimili e attinenti a quel periodo
che ho intitolato “Cosi mai visti né ‘ntisi” traendolo da un verso del poemetto
di Fra Gieronomo Pane e Vino di cui ho detto. Ho fatto poi interagire dei
personaggi reali con altri tratti dai ricordi e dalle esperienze di una vita al
fine di rendere allettante ai più la lettura e la conoscenza di un episodio
storico che mi sembra possa rappresentare anche la nostra società contemporanea
con tutti i suoi pregi e difetti.
Insieme al Vescovo, che aleggia sull’intero contesto, ho
fatto rivivere gli uomini della sua corte e della sua guardia vescovile.
Insieme ai Giurati e ai cittadini, ai nobili e ai popolani del tempo, ho fatto
rinascere loro stessi e le loro famiglie con i loro problemi, amori e odi, le
loro angustie, preoccupazioni e gioie.
Tante storie si intersecano: la ribellione fa da filo
conduttore, ma poi se ne distinguono altre tra cui un amore contrastato e un
omicidio con relative indagini, quasi un giallo.
Ho affrontato come tema conduttore soltanto la prima
parte del mio saggio precedente e precisamente quella concernente la
ribellione. Ho tralasciato invece la seconda parte relativa alla ripresa della
lite tra Castrogiovanni e il Vescovo sino alla bolla del Papa Urbano VIII del
1632 che stabilì, riconoscendo le buone ragioni degli Ennesi, che la Città non
dipendesse più dal Vescovo di Catania, ma passasse sotto la giurisdizione
dell’Arcivescovo Metropolita di Monreale.
martedì 3 novembre 2015
INCIPIT DEL 1° CAP. DEL ROMANZO "COSI MAI VISTI NE' 'NTISI"
CAP. 1°
Viscuvu in Catania ci stetti
Innoccenziu Massimu Romanu
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E’ con questi stessi primi versi che comincia
un poemetto intitolato "Relazione veridica di tutto quello che successe
nella ribellione contro il Vescovo Innocenzo Massimo Romano" composto da
tale Fra Gieronimo Pane e Vino.
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L’annu milli seicentu vinti setti
Nusceru a visitari li Citati
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Ma fici cosi mai visti, ne intisi
Processava Parrini e Maritati
Preni e lattanti nelli fossi misi.
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Padre Giovanni dei Cappuccini, in una sua
opera sulla storia di Enna, ci narra che il Vescovo Innocenzo era venuto ad
Enna per la correzione dei costumi ed, essendo questi "avido del danaro e
la sua Corte un puoco libertina, fece fare nuova inquisizione su tutti coloro
li quali s'havevano contratti in matrimonio e s'havessero pratticato prima del
suo sponsalizio, stante detto Vescovo haver stabilito la pena pecuniaria e,
trovando che erano trasgressori molti Castrogiovannesi, prendevano le moglie,
stante l'huomini contrattati con le suddette si ritiravano nelle campagne e
parte li carceravano nel pubblico Castello e parte nel Palazzo, con operando la
Corte molte discolerie..."
Angilo arrancava dietro le due
mule che, sovraccariche di paglia, s'inerpicavano lungo il ripido sentiero
della Scalazza. Questo era una scorciatoia che portava al paese molto più
rapidamente della trazzera che scorreva sinuosa sui fianchi del monte.
Le cicale, che sino a qualche ora
addietro con il loro stridio avevano assordato le sue orecchie, ora tacevano. Il
sole andava tramontando dietro le colline e indorava la massiccia mole tufacea
dell'altopiano.
Di tanto in tanto, allorché egli
non riusciva a tenere il passo delle mule per lo spossamento accumulato in una
giornata di duro lavoro, si appendeva alla coda di una di esse e si faceva
tirare nella salita. Ma appena si accorgeva che la mula cominciava ad
affaticarsi eccessivamente, lasciava la presa e ricominciava a seguirla
stancamente, cercando di non farsi distanziare.
Spesso si girava a guardare se
suo fratello Mariano, che seguiva con altre due mule altrettanto cariche,
tenesse il suo passo. Con una grossa vociata, lo incitava a non restare troppo
indietro.
Sapeva bene che, dati i brutti
tempi che correvano, bisognava rimanere sempre vicini per potersi dare subito
manforte in caso di necessità.
D'altro canto era anche ben
cosciente che il carico delle mule non era composto soltanto di paglia, come
all'apparenza sembrava. Sotto di essa avevano nascosto una bisaccia di farina
per ogni mula. Questa era una buona parte di quella necessaria per poter dar da
mangiare alla famiglia per alcuni mesi. Avevano ritirato la farina, passando
poco prima per il Vallone dei Mulini, da massaro Mattio il mugnaio presso cui
avevano depositato a suo tempo il grano dopo la trebbiatura. La nascondevano
per evitare sia ogni tentazione ai malviventi che infestavano le strade sia, se
possibile, di pagare il dazio all'ingresso della Città. Vero che conoscevano da
sempre i dazieri e che questi, il più delle volte, erano stati comprensivi con
loro per via di qualche regaluccio personale: ora un galletto, ora una
bottiglia di vino, ora quello che si poteva. Tuttavia era meglio non fidarsi,
non dare nell'occhio e nascondere tutto ciò che poteva essere desiderato da
altri.
Il sole era tramontato del tutto
quando arrivarono sul ciglio della scarpata e si avvicinarono ad una delle porte
del paese.
I dazieri stavano controllando
una lunga fila di muli che li avevano preceduti. Uno di loro fece cenno di
aspettare.
Mariano gli si avvicinò e disse
ad alta voce che portavano solo paglia e chiese se potessero passare. Poi
sussurrò che l’indomani sarebbero ripassati e si sarebbero fermati per
salutarli. E allora questi gli fece
cenno di proseguire.
Si avviarono quindi lungo il
pianoro verso il quartiere di Fundrisi e si inoltrarono tra i vicoli, che era
già buio.
Arrivati nei pressi della loro
casa, sentirono un notevole trambusto. Cosa assolutamente inusuale. Si
affrettarono a legare le mule alla meglio e, senza scaricarle come avevano
sempre fatto, si precipitarono all'interno.
Nella stanza grande, appena
rischiarata da un paio di lumi ad olio, trovarono riunita tutta la famiglia e,
cosa strana e quindi preoccupante, videro seduto al centro lo zio Peppino,
fratellastro della madre, persona ritenuta di rispittu.
Seppero subito che era venuto il
Messo del Vescovo per notificare una multa a Mariano. Non capirono bene il
perché. Le loro insistenti domande provocarono diverse e contrastanti versioni
del fatto.
Si resero conto, infine, che la
multa doveva essere pagata poiché Mariano aveva avuto “rapporti carnali” con
sua moglie Filippa, prima che fosse stato celebrato il matrimonio, quindi in
stato di peccato.
La cosa risultò assolutamente
incomprensibile.
Da che mondo è mondo e come tutti
gli astanti affermavano, i fidanzati che avessero stipulato una formale
promessa di matrimonio erano sostanzialmente autorizzati a frequentarsi. Veniva
anche tollerato che avessero qualche … rapporto, secondo gli usi e costumi del
tempo e la morale corrente.
I casi di figli nati dopo il
fidanzamento e prima del matrimonio erano innumerevoli e ritenuti da sempre
perfettamente legittimi. La somma che si pretendeva venisse pagata era enorme e
non c'era possibilità alcuna che la si potesse procurare.
Il vociare si fece di nuovo
indescrivibile. Le mule vennero dimenticate cariche. Tutti intervenivano a
proposito e a sproposito. Chi suggeriva di scappare con tutta la famiglia in
campagna o, meglio, nelle montagne. Chi sussurrava che sarebbe stato forse
opportuno tentare di corrompere qualcuno che . . . aveva le mani in pasta. Chi,
ancora, consigliava di non pagare e, in caso di necessità, di farsi giustizia
con le proprie mani.
All'improvviso tuonò la voce
roboante dello zio Peppino e tutti tacquero. Suggerì di andare a palazzo a sentire
cosa consigliasse don Filadelfo, ché era persona saggia e comprensiva e poi . .
. si sarebbe visto.
Quelle poche parole troncarono
ogni discussione. Angilo e Mariano si rasserenarono e scaricarono subito le
mule. Si lavarono poi da capo a piedi, indossarono il vestito della festa e, in
compagnia dello zio Peppino, si avviarono verso il palazzo, nel centro del paese,
che era già notte.
Don Filadelfo, che era andato a
letto, sentendo che i fratelli erano accompagnati dallo zio Peppino, mugugnando
si alzò e li ricevette nell'ingresso.
Sedutisi in cerchio, non sapevano
come cominciare il discorso. Stavano zitti, girando e rigirando i berretti tra
le mani. Zio Peppino infine ruppe il ghiaccio e, dopo i convenevoli dettati dal
rispetto, espose il problema. Seguì ancora un lungo silenzio. Don Filadelfo si
schiarì la voce, tossì alcune volte e disse che questa inquisizione che aveva
iniziato il Vescovo era certamente ingiusta. Doveva pur esserci un qualche
rimedio. In fondo, solo questione di soldi era. Suggerì poi a Mariano, per
evitare guai, di non farsi trovare in paese sino a quando il problema non fosse
stato chiarito. Filippa e il bambino sarebbero potuti restare in casa. Da noi
donne e bambini non si toccano; nessuno ne avrebbe il coraggio.
Tranquillizzati, gli ospiti si
alzarono e, profondendosi in ringraziamenti e ossequi, tornarono a casa.
Lungo la strada i tre stettero in
silenzio. Mariano azzardò poi che forse sarebbe stato meglio che anche Filippa
e il bambino andassero in campagna con lui. Ma Zio Peppino fu categorico. Se don
Filadelfo aveva detto così, così si doveva fare. Vuol dire che sapeva.
Nessuno osò discutere ancora,
così si doveva fare e così si fece.
Quella era una di quelle rare
notti che erano afose anche a Castrogiovanni, sull'altopiano. Quando ciò accadeva,
il clima estivo diveniva più intollerabile che alla marina.
Don Filadelfo, che soffriva
particolarmente il caldo, non riuscì ad addormentarsi. Si girava e rigirava nel
letto e sentiva quasi di odiare la Principessa, come ancora chiamava Rosalia,
che accanto a lui invece dormiva russando sonoramente. Egli rimuginò a lungo su quanto era accaduto
nella giornata pensando soprattutto alla visita che aveva ricevuto. Conosceva
già da qualche tempo il problema.
Il Vescovo era venuto da più di
un mese in visita pastorale. Subito aveva emanato la bolla con cui imponeva una
forte pena pecuniaria nei confronti di quelli che avevano convissuto o
convivevano in “stato di peccato”, in quanto non sposati. Sembrava che avesse
invocato l'applicazione di un editto del Concilio di Trento che vietava ogni
rapporto al di fuori del matrimonio. Poiché nessuno aveva mai saputo alcunché
di tale legge, tutti si erano convinti che fosse solo un espediente per fare
soldi. E poi quello “stato di peccato”,
che veniva sbandierato come uno spauracchio, suscitava le maggiori reazioni.
La sua coscienza si ribellò. Come
poteva essere considerato stato di peccato una convivenza accettata e favorita
da sempre dalla consuetudine secolare delle famiglie di combinare i matrimoni
dei figli sin dalla più tenera infanzia? Come potevano essere considerati in
stato di peccato egli stesso e Rosalia per avere convissuto per decenni?
Non l’aveva proprio potuta
sposare Rosalia, prima perché aveva già marito e poi, quando era rimasta
vedova, per la netta opposizione dei suoi.
Pertanto era stato emarginato
oltre che dalla sua stessa famiglia anche dalla società cittadina. Era stato
poi anche estromesso, poco alla volta, dall'amministrazione e dalla successione
dei più importanti beni familiari.
Avevano cercato di coartare la
sua volontà per costringerlo a rompere questo legame ritenuto non consono alla
sua dignità. E quanto aveva sofferto lui! Ma non si era mai arreso.
Era stato criticato da tutti sin
dall'inizio, quando ancora imberbe aveva cominciato la sua relazione con questa
donna che godeva di una pessima fama. Veniva ritenuta addirittura una
pervertita posseduta dal diavolo. Infatti, nonostante fosse sposata con il
Principe di Roccalumera, di molti anni più anziano di lei, aveva avuto prima e
dopo il matrimonio innumerevoli relazioni adulterine e, fatto veramente
incredibile, con altre donne, con bambini e, si sussurrava, anche con animali.
Egli aveva saputo tutto e
tuttavia non aveva potuto resisterle.
La loro relazione era iniziata
all’improvviso, quasi per gioco; ambedue erano stati travolti da una
incredibile e travolgente passione.
Ricordò ancora, con immutata
libidine, il loro primo incontro.
Era l’inizio di un’estate di tanti,
tanti anni addietro. Si stava recando in campagna seguito da un suo famiglio
per andare a sovraintendere alla raccolta del grano. Nonostante fosse ancora
prima mattina, il caldo era già intenso. Si era liberato di buona parte degli
indumenti superflui, restando a torso nudo e coperto da un grosso cappellaccio
a larghe tese che lo riparava dal sole.
Procedendo per un viottolo
secondario, che abitualmente percorreva per abbreviare il suo cammino, aveva
sentito delle grida provenienti da un casolare poco distante. Rallentato il
passo della cavalla per vedere meglio cosa stesse accadendo, aveva notato una
donna discinta che usciva dall’abituro inseguita da un uomo seminudo. Costei,
con un inusitato balzo felino, era riuscita a montare su un bellissimo cavallo
nero che pascolava nelle vicinanze. Si era poi allontanata al galoppo sfrenato
dirigendosi verso di lui, mentre l’uomo, che non aveva potuto fermarla, si era
subito ritirato in casa.
Sopraggiunta nel viottolo dove
egli si era intanto fermato, aveva bloccato il suo cavallo e lo aveva
affiancato al suo. Dopo averlo scrutato da capo a piedi, con un accattivante
sorriso, aveva fatto avvicinare di più il suo cavallo. Le loro gambe erano
arrivate a sfiorarsi e poi a toccarsi ancora. Egli era stato preso da un nodo
alla gola. La donna gli era apparsa subito bellissima. Con voce rauca e
balbettante, le aveva poi chiesto il suo nome e cosa le fosse accaduto. Aveva
appreso così che era la Principessa di Roccalumera e che quell’uomo era uno
sciocco impotente che non aveva saputo darle quanto il suo dovere gli avrebbe
imposto.
Don Filadelfo era rimasto
sbalordito, non sapeva proprio cosa fare. Conosceva per fama la Principessa,
sapeva delle sue frequentazioni avventurose di cui tanto si parlava, ma non
avrebbe mai immaginato tanto.
La Principessa allora, senza
remora alcuna, tastandogli i muscoli, gli aveva sussurrato che certamente egli
avrebbe saputo fare meglio il suo dovere di maschio.
Don Filadelfo, sconvolto più che
meravigliato, aveva licenziato subito il famiglio che lo accompagnava. Era
sceso da cavallo e l’aveva aiutata a fare altrettanto. Quindi l’aveva guidata
in un anfratto antistante dove aveva subito fatto il suo dovere, adeguatamente
ricambiato con una foga esorbitante e con delle tecniche stravolgenti e
sconosciute.
Nei giorni successivi, gli
incontri-scontri tra i due si erano susseguiti con una frequenza e un ritmo incessanti,
con evidente reciproca soddisfazione.
Quando il loro rapporto si fu
consolidato, era stata la donna stessa che nottetempo, abbandonata la sua casa,
si era trasferita nella masseria dove egli risiedeva abitualmente.
Fortunatamente il Principe, oramai
vecchio, non aveva più alcun interesse né a tenersi quella moglie e nemmeno a
vendicarsi. Si era liberato di quel legame che da tempo era divenuto un
fardello insopportabile.
Nei primi tempi egli era stato
tacitamente approvato e invidiato da tutti. La sua relazione veniva considerata
una bellissima avventura giovanile. Si riteneva, infatti, che quel legame
sarebbe presto cessato. Era notorio quanto la Principessa fosse volubile e
desiderosa di sempre nuove esperienze. Egli avrebbe trovato, o forse meglio,
gli avrebbero trovato una moglie illibata, di sani principi morali e religiosi,
di buona famiglia e con una cospicua dote, come era nelle tradizioni del suo
ceto.
Con il passare degli anni erano
cominciati i veri problemi, quando quello che era stato previsto da tutti non
si era avverato. Aveva ignorato e addirittura rifiutato tutti i possibili
partiti che gli erano stati prospettati in matrimonio. Mentre Rosalia, contro
ogni previsione, non lo aveva più lasciato per approdare in altri lidi, come
aveva sempre fatto anche perché, avanzando negli anni, si era stancata della
sua vita tempestosa e aveva deciso di porvi rimedio accasandosi.
Invero egli si era poi
intestardito a non voler modificare questo stato di fatto. Dapprima per
pigrizia, poi per abitudine più che per amore e, infine, per ribellarsi alle
imposizioni altrui. Rosalia invece si era acquietata, quasi adagiata, in questa
relazione serena e appagante.
Tuttavia non avevano potuto
legalizzare il loro rapporto per il preesistente matrimonio.
Con l’andare del tempo, la loro
situazione era però peggiorata sempre di più.
Il padre di lui, perduta ogni
speranza di modificare le cose, solo dopo molti anni gli aveva fatto donazione,
sia ben inteso con riserva di usufrutto, di una pur modesta parte limitrofa del
palazzo di famiglia, dove sarebbe potuto andare ad abitare con Rosalia. Aveva
però preteso che venisse eretto un muro divisorio in un certo terrazzo per
evitare di vedere dda fimmina. Una sua sorella, dopo la morte del Principe,
aveva insistito sempre più pervicacemente perché quello stato di peccato
venisse sanato con un matrimonio. Egli aveva ancora rifiutato. Si era reso
conto che ciò avrebbe signifi- cato
rompere definitivamente i rapporti con il padre e con la famiglia e, forse
anche, con il resto dei parenti e degli amici.
Con una donna come quella si
poteva anche convivere per qualche tempo, ma mai a lungo e definitivamente: a
maggior ragione non la si poteva proprio sposare.
Egli aveva, infine, ceduto alle
pressioni della sorella e, per cercare di salvare il salvabile, aveva optato
per un matrimonio segreto che, proprio perché segreto, non aveva risolto i suoi
problemi.
Ora, con la venuta del Vescovo
Innocenzo, tutti i guai, che con il tempo sembravano attenuati, erano tornati
di colpo a galla.
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Castrogiovanni,
Cosi mai visti,
Cosi mai visti nè 'ntisi,
Eugenio Amaradio,
Innocenzo Massimo,
La rivolta di Castrogiovanni,
Sicilia '600
RECENSIONE DI GASPARE AGNELLO SU "COSI MAI VISTI NE' 'NTISI"
Recensione di Gaspere Agnello su “Cosi mai visti né
‘ntisi nella Sicilia del ‘600” di Eugenio Amaradio
Eugenio Amaradio è un noto Avvocato di Enna che si è
già cimentato con la letteratura avendo già pubblicato nel 2006, con la
Lussografica, “La ribellione di Castrogiovanni contro il Vescovo di Catania”
con le pregevoli illustrazioni di Bruno Caruso che ne fanno un libro
d’arte.
Nel 2011, con ilmiolibro del Gruppo Editoriale
l’Espresso ha pubblicato un altro libro storico “Ero Balilla” ‘In Sicilia nel
1943’ in cui si parla dello sbarco degli Americani in Sicilia con particolare
riferimento alla occupazione della città di Enna che era sede della sesta
armata e quindi obiettivo militare privilegiato per i bombardamenti dei
terribili quadrimotori delle forze anglo-americane.
Ora ritorna sulla ribellione della città di
Castrogiovanni del 1627 contro il Vescovo di Catania Innocenzo Massimo
Romano con un romanzo storico “Cosi mai visti né ‘ntisi” ‘Nella Sicilia del
‘600’ ancora con i tipi della casa editrice Lussografica di Caltanissetta
e con i pregevoli disegni di Bruno Caruso.
Ottima l’idea di mettere all’inizio di alcuni
capitoli, i versi del poemetto di Fra Gieronimo Pane e Vino che tratta,
appunto, della rivolta di Castrogiovanni.
Il libro contiene una postfazione del Professore
Liborio Termine che è ampiamente esaustiva e che, da sola, basterebbe a
spiegare la bellezza e il senso del libro.
Il Professore Termine parlando della normalità e della
tendenza dell’ennese a seppellire il ricordo della storia che considera
‘naturalità’, afferma:
“Credo che questa caratteristica spieghi la ragione
per cui l’epica non si adatti all’ennese, perché non trova innesti né nel modo
in cui snoda la sua vita nè nella visione che della vita egli ha. Non
sorprende, dunque, se all’ennese manca un sentire romanzesco e perciò non
riesce a fare dell’esistenza, delle trame stesse del suo svolgersi, “romanzo”.
Non mi sembra davvero un caso che sia proprio Savarese
a darne ampia dimostrazione: lui che, avendo assunto ciò che è propriamente
ennese come natura narrativa, non è mai riuscito a farne un vero romanzo.
AMARADIO CI RIESCE, IL ROMANZO LO FA. E ci riesce
proprio perché, preso il “fatto”, non lo abbandona un momento. Lo assume come
struttura primaria, “fonte” che punteggia lo svolgimento narrativo e, allo
stesso modo, “fonte” dell’invenzione romanzesca che non vi è mai esterna né vi
si sovrappone. Si istituisce così un’architettura che ha qualcosa di eccentrico
e di intrigante, e che a me, ennese, siciliano, risulta molto familiare”.
“La struttura, continua il Professore
Termine, molto mi ricorda i quadri del cartellone del cantastorie ciascuno
dei quali si apre al “cunto”, che nella voce e nel corpo del cantastorie si fa
narrazione e drammatizzazione. Allo stesso modo, appunto, in cui, nel testo di
Amaradio, il reperto storico, il documento che dà certezza del fatto, nel suo
fare da “introduzione”, diventa via via sipario e scenografia che scopre e
anima lo svolgimento romanzesco a cui è sostanza l’uomo, il suo sentire, il suo
patire”
Detto questo voglio subito entrare nel cuore del libro
che, parlandoci della rivolta di Castrogiovanni contro il Vescovo di
Catania Innocenzo Massimo R omano, ci descrive la società siciliana del
seicento che vive sotto il terrore della doppia inquisizione della Chiesa e del
Governo spagnolo. Il quadro che ne viene fuori è desolante e drammatico e fa
impallidire la narrazione manzoniana che descrive una società lombarda
ingiusta, oppressiva, mafioseggiante che, però, non ha i connotati terribili e
assurdi dell’inquisizione.
Le vessazioni che subisce il popolo di Castrogiovanni
sono inaudite e il Vescovo, con la scusa di voler raddrizzare i costumi della
popolazione, in ossequio al Concilio di Trento, impone nuovi balzelli che la
gente non può sopportare per cui è costretta alla ribellione che scoppia
nell’anno 1627.
Lo stesso prelato Don Cesare afferma a tal proposito:
“Certo bisogna pur riconoscere che la responsabilità di quanto stava accadendo
era del Vescovo e del suo Assessore Fiscale. Costoro avevano perseguito il loro
scopo di procacciarsi del denaro a tutti i costi e a scapito della povera
gente. Era come se avessero voluto estrarre altro succo da un limone spremuto”.
Le accuse che venivano mosse agli abitanti di
Castrogiovanni erano di concubinaggio, di avere rapporti sessuali
prematrimoniali, di convivenze illegittime, di figli avuti fuori dal matrimonio
e di altre irregolarità che, in quel tempo, erano normali e accettate da tutti.
Il Concilio di Trento aveva proibito tutte queste illegittimità e il Vescovo,
forte della Controriforma, aveva sanzionato i cattivi costumi con ammende esose
che dovevano servire a rimpinguare le casse della Curia. E’ da dire che, ancora
oggi, il concilio di Trento tenta di far valere le proprie antiche ragioni.
Nella vicenda si inserivano anche le lotte fratricide
dei baroni e nobili del tempo per la conquista del potere, i soprusi dei
potentati locali, le condizioni di vita miserevoli della gran massa della
popolazione.
Per descrivere la società del tempo ci soccorre ancora
Don Cesare che afferma:
“…che i tempi erano cambiati, che ormai non c’era
alcun ordine sociale, né educazione e rispetto reciproco, che tutti si
trovavano esposti alle angherie dei più forti…”
“….La Sicilia, forse per la sua posizione al centro
del Mediterraneo, era sostanzialmente indifesa per cui periodicamente era stata
invasa dal potente di turno. I vari dominatori il più delle volte avevano
sfruttato le sue ricchezze e non si erano interessati di altro. Anzi l’avevano
abbandonata al suo destino nelle mani dei piccoli potentati locali.
Costoro, in eterna lotta tra di loro, nel vano
tentativo di prevalere uno sull’altro, non erano mai riusciti a liberarsi dagli
stranieri. Spesso avevano chiamato i n loro aiuto un altro straniero che
immancabilmente era diventato il nuovo dominatore.
La più grave conseguenza di tutto ciò era stata la
carenza di un potere centrale che avesse potuto efficacemente governare. Così
era rimasta in vigore solo la legge del più forte e il pesce più grande aveva
mangiato sempre il pesce più piccolo.
Per avere un minimo di giustizia e protezione si era
dovuti sottomettere al vicino più forte che, a sua volta, aveva messo in atto
angherie ancora più pesanti. L’ordine e la giustizia erano diventati parole
vacue e la convivenza sociale era andata allo sfascio.
Questa volta era venuto un Vescovo ad angariare la
povera gente. Domani sarebbe potuto venire magari un nobile, come questo Barone
Petroso. E poi chi sa altro”.
Do Cesare, dopo avere ricordato la ribellione, che
aveva cercato di fermare, “confessò che in cuor suo l’aveva approvata. Aveva
giustificato l’ira del popolo che aveva subìto oltre alle angherie del Vescovo
anche i soprusi della sua corte. Non si potevano e non si dovevano più
accettare passivamente le ingiustizie altrui. Bisognava lottare con tutti i
mezzi perché si garantisse l’ordine anche in questa terra martoriata”.
Intanto il popolo, spinto anche da alcuni notabili che
avevano interesse a cambiare l’ordine costituito, si ribella e costringe a
fuggire da Castrogiovanni il Vescovo che ivi si trovava in visita pastorale
saccheggiando palazzi e le prigioni da cui furono fatti uscire i carcerati.
La reazione fu violenta. Viene inflitta la scomunica e
viene mandato a Castrogiovanni il giudice Antonio Costa che, con la sua
ferocia, attrezza la camera di tortura e manda in carcere nobili e popolani i
quali ultimi vengono duramente condannati mentre i nobili escono dalle patrie
galere pagando qualche multa.
Alla fine il nuovo Vicerè Francesco Fernandez de la
Cueva concede la grazia ai condannati, viene ritirata la scomunica e a
Castrogiovanni ritorna la pace una pace armata per evitare altre questioni che
si vedono all’orizzonte. Si vis pacem, para bellum.
Questa è la nervatura principale del libro che però è
molto ricco, complesso, e riesce in maniera pregevole a dare la dimensione del
secolo terribile che è il seicento della controriforma e dell’inquisizione. La
narrazione si svolge a incastro ed è una composizione di storie che potrebbero
vivere ognuna a se stante ed essere oggetto di racconti lunghi.
L’uccisione del tenente Remirez occupa lo spazio di un
vero e proprio romanzo autonomo da cui viene fuori uno spaccato di quella
società dominata dall’usura, dalla corruzione, da rapporti di uomini del potere
con donne di ogni tipo, da vendette, da intrighi, da una giustizia sommaria
capace di fare morire nelle patrie galere persone che nulla avevano fatto di
illegale.
Il Capitano Filippo Trifirò conduce le indagini e fa
una lista di sospettati che avrebbero potuto avere interessi a uccidere il
tenente e tra questi c’è Turiddu Trebastoni, la cui madre era l’amante del
Tenente, Marino Giacona usuraio, Gigino Zappalà, don Giuseppe Ribera la cui
donna era stata importunata dal Tenente, Matteo Filino che viene arrestato, che
confessa il delitto per poi ritrattare. Matteo, forse innocente, viene lasciato
nel castello di Castrogiovanni dove si suicida, senza che nessuno conoscerà mai
la verità sula morte del Tenente Ramirez.
Un altro capitolo del romanzo è la storia di Agata e
dell’amore di Gilberto per questa delicata fanciulla.
La storia è veramente drammatica e lo scrittore
Amaradio ci riserva tante sorprese e colpi di scena che mi ha riportato alla
fantasia sfrenata di Camilleri che inventa situazioni impensabili.
Le pagine sull’amore di Gilberto per Agata sono
certamente le più toccanti del libro e la fine della ragazza è quella che si
addice alla società del XVII secolo in cui sarebbe stato inconcepibile che un
nobile potesse sposare una popolana e questo anche se i nobili, in fondo, erano
peggiori degli altri.
Don Filadelfio sostiene che “Un gentiluomo era tale se
aveva una moglie e dei figli legittimi e una o più mantenute con dei figli
illegittimi, che aveva adeguati e consistenti debiti, principalmente di gioco;
che aveva o aveva avuto parecchi procedimenti giudiziari e in particolare
una causa di divisione ereditaria o , comunque, civile della durata di almeno
un ventennio”.
Agata fa un figlio con il suo promesso sposo, che
muore prematuramente. Per questo suo peccato viene incarcerata e liberata da
Don Federico che le dà ospitalità nella sua casa dove il figlio di Don Federico
se ne innamora senza che questi abbia la forza di manifestare il proprio amore.
Poi Agata torna alla sua famiglia e subisce tante amare vicissitudini che la
portano alla morte, dopo che Gilberto le manifesta il proprio amore che
era ricambiato in silenzio dalla povera Agata.
Io sono certo che gli attenti lettori del libro
sapranno cogliere la bellezza di queste pagine manzoniane che ci rivelano uno
scrittore attento, consumato nell’arte dello scrivere, smaliziato, che sa usare
anche la tecnica del giallo per tenere appeso il lettore al libro e ai fatti
narrati di cui vuole conoscere la conclusione.
Ho letto gli altri libri di Amaradio che ho anche
recensito positivamente ma questo lavoro lo consacra scrittore a tutto tondo
anche perché, come ha scritto, il Professore Termine, Amaradio ha dato alla
città di Enna il suo libro. Un libro aggiungo io che ridà alla città di
Enna la sua dimensione ‘epica’ e il senso della ribellione che ha radici
profonde nel suo Euno che seppe ribellarsi all’occupazione dei romani.
E poi è da aggiungere che il libro è frutto di una
ricerca storica attenta e meticolosa che ha portato l’autore fino ai segreti
archivi del Vaticano e agli archivi provinciali e regionali della Sicilia per
attingere notizie sul Vescovo Innocenzo Massimo Romano e su quella rivolta di
popolo che dà senso e dignità a un popolo che trova la sua ragion d’essere
nella storia antica e recente, appunto in Euno e in coloro che hanno assaltato
il Castello per cambiare la loro vita e liberare i loro prigionieri, anche se
in Sicilia i processi di cambiamento durano secoli.
L’assalto alla Bastiglia, che ha dietro l’illuminismo,
è più conosciuto ed è diventato simbolo della nuova era borghese, l’assalto al
Castello di Enna, meno noto, assurge a simbolo di riscatto, a simbolo della
dignità di un popolo che il libro epico di Amaradio vuole valorizzare e
considerare nel suo giusto valore simbolico.
E infine ritornando alla forma di cui parla Liborio
Termine a cui la struttura del libro ricorda i cartelloni dei cantastorie io
aggiungerei che il libro contiene in esso tanti soggetti teatrali o cinematografici.
Si può trarre un’opera cinematografica dalla storia della rivolta, un altro
film può essere tratto dalla storia di Agata e Gilberto, che ha qualche
tratto in comune con la storia di Renzo e Lucia soprattutto per la cornice
storica in cui i due avvenimenti si sono consumati. Un giallo potrebbe essere
tratto dalla storia dell’uccisione del tenente e dalle indagini per scoprire
l’assassino.
Per le scene ha provveduto lo stesso Amaradio che, in
certi momenti, raggiunge livelli eccezionali.
L’incipit del libro ha sapore sciasciano ed è una vera
e propria scena da film: “Angilo arrancava dietro le due mule che,
sovraccariche di paglia, s’inerpicavano lungo il rapido sentiero della
Scalazza. Questo era una scorciatoia che portava al paese molto più rapidamente
della trazzera che scorreva sinuosa sui fianchi del monte.
Le cicale, che sino a qualche ora addietro con il loro
stridio avevano assordato le sue orecchie, ora tacevano. Il sole andava
tramontando dietro le colline e indorava la massiccia mole tufacea della
montagna.
Di tanto intanto, allorchè egli non riusciva a tenere
il passo delle mule per lo spossamento accumulato in una giornata di duro
lavoro, si appendeva alla coda di una di esse e si faceva tirare nella salita.
Ma appena si accorgeva che la mula cominciava ad affaticarsi eccessivamente,
lasciava la presa e ricominciava a seguirla stancamente, cercando di non farsi
distanziare.
Spesso si girava a guardare se suo fratello Mariano,
che seguiva con altre due mule altrettanto cariche, tenesse il suo passo. Con
una grossa vociata, lo richiamava a non restare troppo indietro”.
Un regista che volesse fare un film troverebbe la
scena bella e descritta da uno scrittore che diventa pittore; e di questi
quadri è pieno il bellissimo libro di Eugenio Amaradio che merita una platea
nazionale.
Chiuppano, lì 24.8.2015
Gaspare Agnello
"Cosi mai visti ..." sarà presentato ad Enna il prossimo 20 novembre alle ore 17,30
Il prossimo Venerdì 20 Novembre, alle ore 17,30, il libro "Così mai visti né 'ntisi nella Sicilia del '600" sarà presentato ad Enna, ad iniziativa di tutti i Club Service della Città e di parecchie altre associazioni culturali, con una manifestazione pubblica che sarà tenuta presso la Sala Cerere di Palazzo Chiaramonte del Comune di Enna.
lunedì 14 settembre 2015
Postfazione del Prof. LIBORIO TERMINE dell'Università di Torino
Postfazione al romanzo storico
COSI MAI VISTI NE' 'NTISI
nella Sicilia del '600
La cosa mi
era sembrata strana perché se c’è autore lontano da Sciascia, e anche sul piano
della scrittura, quello è proprio Savarese. Perciò un giorno glielo dissi e
Sciascia, con sorniona ironia, mi rispose: “Proprio perché è nella distanza che
si coltiva meglio l’esercizio”.
La distanza, appunto: i conti tornano. E tornano anche per questo
incredibile testo di Eugenio Amaradio che è ugualmente “distante” dai due
scrittori siciliani – e più da Savarese che da Sciascia, quasi a confermare che
l’”ennesità” trova più facile terreno di coltura nei fatti, nella realtà dei
fatti, che non nella letteratura.
Con questo tratto distintivo: che
l’ennese vive i fatti, anche quando sono incredibili e straordinari, senza
enfasi, con straniante e sommessa, sotterranea “normalità” (e mi verrebbe
voglia di dire “naturalità”: quasi fossero opera della natura e non dell’uomo,
della storia, di cui non ha vero sentimento e verso cui prova profonda sfiducia).
E perciò “normalità”, “naturalità”, che a sé sottomette l’eccezionalità e ne
seppellisce la memoria, non consente il fluttuante riemergere del ricordo.
Credo che proprio questa
caratteristica spieghi la ragione per cui l’epica non si adatti all’ennese,
perché non trova innesti né nel modo in cui snoda la sua vita né nella visione
che della vita egli ha. Non sorprende, dunque, se all’ennese manca un sentire
romanzesco e perciò non riesce a fare dell’esistenza, delle trame stesse del
suo svolgersi, “romanzo”.
Non mi sembra davvero un caso che
sia proprio Savarese a darne ampia dimostrazione: lui che, avendo assunto ciò
che è propriamente ennese come materia narrativa, non è mai riuscito a farne un
vero romanzo.
Amaradio ci riesce; il romanzo lo
fa. E ci riesce proprio perché, preso il “fatto”, non lo abbandona un momento,
lo assume come struttura primaria, “fonte” che punteggia lo svolgimento
narrativo e, allo stesso modo, “fonte” dell’invenzione romanzesca che non vi è
mai esterna né vi si sovrappone. Si istituisce così una architettura che ha
qualcosa di eccentrico e di intrigante, e che a me, ennese, siciliano, risulta
molto familiare.
Amaradio opera una scelta
radicale: assume il “fatto” - i
documenti storici e, tra questi, le ottave della Relazione veridica di tutto quello che successe nella ribellione contro
il Vescovo Innocenzo Massimo Romano – come una sorta di partitura musicale
e ne dà scansione, di possibili azioni e personaggi, a introdurre, ciascuna, un
capitolo del romanzo. Non un esergo, una citazione, dunque; ma proprio un
cartello che, simile a un sipario, attende di aprirsi e che il romanzo,
capitolo dopo capitolo, apre.
Il risultato, dicevo, è per me
familiare in quanto questa struttura molto mi ricorda i quadri del cartellone
del cantastorie ciascuno dei quali si apre al “cunto”, che nella voce e nel
corpo del cantastorie si fa narrazione e
drammatizzazione. Allo stesso modo, appunto, in cui, nel testo di Amaradio, il
reperto storico, il documento che dà certezza del fatto, nel suo fare da
“introduzione”,diventa via via sipario e scenografia che scopre e anima lo
svolgimento romanzesco a cui è sostanza l’uomo, il suo sentire, il suo patire.
Non era facile istituire, con
tanta eleganza e con infinito amore per questa terra e i suoi uomini, una
“distanza” che fosse anche un raccordo - e non solo tra il passato e il
presente. Proprio “raccordo” – cioè continuità – che non disperde il passato
nell’evanescenza di una pura allegoria del presente, ma lo pone come radice
prima, causa mai rimossa dei vizi, dei pregiudizi, delle devastazioni dell’oggi
– e perciò autentico specchio su cui il presente si riflette: e, temo, senza
che realmente si veda.
Nella scelta di questo impianto,
molto delicato e certamente non facile, non manca il peso della lezione
manzoniana. Ma con una curiosa particolarità che Amaradio assume con felice
intuito e porta avanti sino alle estreme conseguenze: il rinserrare la
narrazione – e perciò i temi, le azioni, i personaggi – dentro un circuito
storico che è sì nazionale (per quella “linea del caffè” che ha percorso
l’intero Stivale e si è allungata sin oltre i suoi confini), ma lo è in quanto
nulla disperde dei caratteri propri della storia e dell’antropologia siciliane.
Così il raccordo chiude un
cerchio e la Sicilia, che qui si mostra in filigrana, torna a essere metafora
di quell’Italia che ne assume il sentire e forse anche i costumi. Sciascia,
come noto, ha, per questo aspetto, aperto un nuovo territorio di analisi e
rappresentazione. Amaradio mostra d’esserne consapevole e perciò, con la
sicurezza dello scrittore, non esita a entrarvi, a occuparlo e percorrerlo per cercare
di spostarne in avanti, almeno un poco, i confini.
Ed è forse anche questa la
ragione per cui il romanzo di Amaradio si fa leggere, ci impone d’essere letto,
come straordinario documento della nostra contemporaneità, di cui trama
l’intero tessuto: il potere sempre tentato dal diventare strapotere e
prepotenza; la donna vista, in pagine di forte impatto emotivo, non solo come
la parte debole, anche se “eroica” della società, ma oggetto di soprusi nella
disperante ricerca del riscatto; il gioco crudele, sino ad apparire gratuito,
dell’ingiustizia; la sostanziale immobilità culturale e sociale di una società
che tuttavia sembra preda di precipitosi cambiamenti…
A non rendere dispersivo questo
repertorio e velleitario il progetto, a darvi coesione di unità e struttura di
pensiero storico e non moralistico, fuori dalle secche di un facile
sociologismo, provvede la letteratura con i suoi mezzi, qui persino
sofisticati: l’organizzazione drammaturgica da “cantastorie”, innanzitutto –
che è “invenzione”, “riscoperta” di grande qualità non solo strutturale ma
artistica tout court. La scrittura lo dimostra. Non credo sia un caso infatti
che proprio la felicità dell’esito mirabilmente nasconda la fatica della
realizzazione, che so lunga, qualche volta preoccupata.
Liborio Termine
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giovedì 6 agosto 2015
PREFAZIONE DELL'AUTORE NEL ROMANZO "COSI MAI VISTI NE' 'NTISI NELLA SICILIA DEL '600"
La Città di
Castrogiovanni, oggi Enna, si rivoltò nel 1627 contro il Vescovo di Catania
Innocenzo Massimo. L'intera Città fu scomunicata e i responsabili, o presunti
tali, furono arrestati e condannati a pesanti pene.
Venni a conoscenza
di questo episodio storico, allora poco noto, leggendo l'opera di Paolo Vetri
"Castrogiovanni dagli Svevi all'ultimo dei Borboni". Così appresi
che, in proposito, esisteva un poemetto manoscritto in ottava rima siciliana di
tale Fra Gieronimo Pane e Vino e che questo documento era custodito presso la
Biblioteca Comunale di Enna. Ne ottenni copia, lo trascrissi e interpretai non
senza difficoltà.
Contemporaneamente
cominciai a cercare tutte le altre fonti possibili sull’avvenimento riferendomi
principalmente alle preziose note con cui il Vetri aveva arricchito il suo
testo. Di altro riuscii a trovare ben poco e, a volte, anche inattendibile.
Quei fatti, tanto scabrosi, erano stati trascurati dai più e qualche volta
anche mistificati.
Mi trasformai in
un topo d’archivio. Era questa un’attività che non avevo mai svolto. All’inizio
dubitai fortemente di poter riuscire in qualcosa di positivo, però dopo rimasi
affascinato da questa nuova impresa e, incredibilmente, mi trovai a mio agio
nei meandri degli archivi, tra i volumi polverosi, tra le carte ingiallite.
Come trasportato da una macchina del tempo cominciai a rivivere il passato.
Iniziai con quel
poco che rinvenni nella Biblioteca di Enna, proseguii poi nell’Archivio di
Stato di Enna e di Palermo e poi anche nell’Archivio dell’Arcivescovado di
Catania.
In occasione di un
mio viaggio a Roma, fui ammesso nell'Archivio Segreto del Vaticano. Lì, per la
benevolenza del direttore e di alcuni impiegati volenterosi, ottenni di
consultare alcuni documenti relativi al Vescovo Innocenzo. Disposero in
bell’ordine sul banchetto assegnatomi parecchi faldoni e mi indirizzarono nella
ricerca. Solo dopo qualche ora riuscii a trovare finalmente un fascicoletto
contenente la corrispondenza autografa del mio Vescovo con la Segreteria di
Stato dalla sua sede di Ferrara ove svolgeva le funzioni di Nunzio Apostolico.
L’emozione fu grandissima. Avevo tra le mani dei fragilissimi trasparenti
foglietti autografi in cui il Nostro riferiva nientemeno che dei movimenti
delle truppe e della flotta della Serenissima Repubblica di Venezia.
Rimasi seduto a
quel tavolo per tre giorni consecutivi. Ero stravolto per l’incredibile dono
che mi era stato fatto, solo in conseguenza della fiducia che avevo ispirato.
Quasi non credevo che tanto mi stesse effettivamente accadendo. Pensavo di
vivere in un sogno. Non mi allontanai quasi mai se non per soddisfare i miei
bisogni essenziali.
Trovai quasi tutto
quello che cercavo sul Vescovo e su alcuni interessanti riscontri sulla storia
della Chiesa che in qualche modo motivavano l’accaduto.
Poi ebbi a
visitare la Cattedrale di Catania e nell’abside lessi ... INNOCENTIUS MAXIMUS
EPISCOPUS FECIT … scritto a lettere cubitali e, nel transetto di destra,
accanto all’altare della Madonna, trovai la tomba dello stesso Vescovo. Il
notevole rilievo della scritta di cui sopra, del monumento funebre e della
lapide elogiativa, stimolò ulteriormente la mia curiosità.
Continuate quindi
le ricerche, rinvenni parecchie altre fonti sull'argomento, le misi in ordine e
le tradussi. Contemporaneamente cominciai a scrivere una esposizione sintetica
dei fatti, con alcune note per inquadrare il periodo storico e qualche commento
tratto sia dalle fonti sia da alcuni approfondimenti relativi al Seicento, con
qualche riferimento anche agli effetti del Concilio di Trento sugli usi e
costumi delle nostre popolazioni.
Nel 2006 pubblicai
il mio lavoro intitolandolo “La Ribellione di Castrogiovanni contro il Vescovo
di Catania – Un episodio di storia siciliana del 1627”, magnificamente
illustrato dal maestro Bruno Caruso e con i tipi dell’Ed. Lussografica di
Caltanissetta.
Tale opera venne
apprezzata dal Prof. Giuseppe Giarrizzo, Preside emerito della facoltà di
Lettere dell'Università di Catania che ne sollecitò la presentazione
nell'ambito di una manifestazione ai Benedettini di Catania in onore del
Maestro Bruno Caruso. Tra i vari riconoscimenti non posso non citare una
cortesissima nota del Prof. Adriano Prosperi della Normale di Pisa.
Già allora,
contestualmente alla stesura di quell'opera, mi proposi di allargare la
trattazione dell'argomento alternando, a singoli episodi della stessa, la
narrazione di un romanzo storico contenente un'esposizione di fatti e
avvenimenti, il più delle volte verosimili e attinenti a quel periodo.
Ho fatto poi interagire
dei personaggi storici con altri tratti dai ricordi e dalle esperienze di una
vita al fine di rendere allettante ai più la lettura e la conoscenza di un
episodio storico che mi sembra possa rappresentare anche la nostra società
contemporanea con tutti i suoi pregi e difetti.
Insieme al
Vescovo, che aleggia sull’intero contesto, ho fatto rivivere gli uomini della
sua corte e della sua guardia vescovile. Insieme ai Giurati e ai cittadini, ai
nobili e ai popolani del tempo, ho fatto rinascere loro stessi e le loro
famiglie con i loro problemi, i loro amori e i loro odi, le loro angustie e
preoccupazioni e le loro gioie.
In un
caleidoscopio di innumerevoli personaggi ho cercato di rappresentare, in un
quadro di insieme, quella comunità umana con i suoi usi e costumi.
Tuttavia, mentre i
personaggi sono risultati molti, le storie che si intersecano con loro non sono
poi tante.
Prevale su tutte
la ribellione che si sviluppa ben oltre gli avvenimenti accertati in quanto
sono sceso in dettagliati particolari immaginati per rendere la narrazione più
vissuta e partecipata.
In questo
contesto, ho innestato altre storie particolari, tra cui quelle relative alle
lotte dei maggiorenti per conquistare o mantenere il loro potere sulla Città ed
ancora tante altre tra cui alcune d’amore e di morte.
Ho affrontato come
tema conduttore soltanto la prima parte del mio saggio precedente e
precisamente quella concernente la ribellione e la conseguente scomunica e
condanna dei responsabili sino alla revoca dell'interdetto e alla grazia per i
condannati. Ho tralasciato invece la seconda parte, pur essa interessante e
concernente la ripresa della lite tra Castrogiovanni e il Vescovo.
Ho accolto il
consiglio pervenutomi da più parti e principalmente dal mio editor della Scuola
Holden di Torino di limitare il testo storico a delle poche citazioni ad inizio
di ogni capitolo per non infastidire il lettore che non è interessato alle mie
pedanti ricerche.
Sperando che
questa mia nuova esperienza possa essere accolta benevolmente, auguro a tutti
buona lettura.
L’AUTORE
mercoledì 5 agosto 2015
Immagine di copertina del volume "Cosi mai visti né 'ntisi nella Sicilia del '600" che rappresenta Innocenzo Massimo Romano, Vescovo di Catania dal 1624 al 1633 da un disegno di Bruno Caruso
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