lunedì 14 settembre 2015

Postfazione del Prof. LIBORIO TERMINE dell'Università di Torino

Postfazione al romanzo storico
COSI MAI VISTI NE' 'NTISI
nella Sicilia del '600
  
 Leonardo Sciascia amava dire che per i suoi “esercizi di scrittura” si era formato su Nino Savarese.
La cosa mi era sembrata strana perché se c’è autore lontano da Sciascia, e anche sul piano della scrittura, quello è proprio Savarese. Perciò un giorno glielo dissi e Sciascia, con sorniona ironia, mi rispose: “Proprio perché è nella distanza che si coltiva meglio l’esercizio”.
La distanza, appunto: i conti tornano. E tornano anche per questo incredibile testo di Eugenio Amaradio che è ugualmente “distante” dai due scrittori siciliani – e più da Savarese che da Sciascia, quasi a confermare che l’”ennesità” trova più facile terreno di coltura nei fatti, nella realtà dei fatti, che non nella letteratura.
Con questo tratto distintivo: che l’ennese vive i fatti, anche quando sono incredibili e straordinari, senza enfasi, con straniante e sommessa, sotterranea “normalità” (e mi verrebbe voglia di dire “naturalità”: quasi fossero opera della natura e non dell’uomo, della storia, di cui non ha vero sentimento e verso cui prova profonda sfiducia). E perciò “normalità”, “naturalità”, che a sé sottomette l’eccezionalità e ne seppellisce la memoria, non consente il fluttuante riemergere del ricordo.
Credo che proprio questa caratteristica spieghi la ragione per cui l’epica non si adatti all’ennese, perché non trova innesti né nel modo in cui snoda la sua vita né nella visione che della vita egli ha. Non sorprende, dunque, se all’ennese manca un sentire romanzesco e perciò non riesce a fare dell’esistenza, delle trame stesse del suo svolgersi, “romanzo”.
Non mi sembra davvero un caso che sia proprio Savarese a darne ampia dimostrazione: lui che, avendo assunto ciò che è propriamente ennese come materia narrativa, non è mai riuscito a farne un vero romanzo.
Amaradio ci riesce; il romanzo lo fa. E ci riesce proprio perché, preso il “fatto”, non lo abbandona un momento, lo assume come struttura primaria, “fonte” che punteggia lo svolgimento narrativo e, allo stesso modo, “fonte” dell’invenzione romanzesca che non vi è mai esterna né vi si sovrappone. Si istituisce così una architettura che ha qualcosa di eccentrico e di intrigante, e che a me, ennese, siciliano, risulta molto familiare.
Amaradio opera una scelta radicale: assume il “fatto”  - i documenti storici e, tra questi, le ottave della Relazione veridica di tutto quello che successe nella ribellione contro il Vescovo Innocenzo Massimo Romano – come una sorta di partitura musicale e ne dà scansione, di possibili azioni e personaggi, a introdurre, ciascuna, un capitolo del romanzo. Non un esergo, una citazione, dunque; ma proprio un cartello che, simile a un sipario, attende di aprirsi e che il romanzo, capitolo dopo capitolo, apre.
Il risultato, dicevo, è per me familiare in quanto questa struttura molto mi ricorda i quadri del cartellone del cantastorie ciascuno dei quali si apre al “cunto”, che nella voce e nel corpo  del cantastorie si fa narrazione e drammatizzazione. Allo stesso modo, appunto, in cui, nel testo di Amaradio, il reperto storico, il documento che dà certezza del fatto, nel suo fare da “introduzione”,diventa via via sipario e scenografia che scopre e anima lo svolgimento romanzesco a cui è sostanza l’uomo, il suo sentire, il suo patire.
Non era facile istituire, con tanta eleganza e con infinito amore per questa terra e i suoi uomini, una “distanza” che fosse anche un raccordo - e non solo tra il passato e il presente. Proprio “raccordo” – cioè continuità – che non disperde il passato nell’evanescenza di una pura allegoria del presente, ma lo pone come radice prima, causa mai rimossa dei vizi, dei pregiudizi, delle devastazioni dell’oggi – e perciò autentico specchio su cui il presente si riflette: e, temo, senza che realmente si veda.
Nella scelta di questo impianto, molto delicato e certamente non facile, non manca il peso della lezione manzoniana. Ma con una curiosa particolarità che Amaradio assume con felice intuito e porta avanti sino alle estreme conseguenze: il rinserrare la narrazione – e perciò i temi, le azioni, i personaggi – dentro un circuito storico che è sì nazionale (per quella “linea del caffè” che ha percorso l’intero Stivale e si è allungata sin oltre i suoi confini), ma lo è in quanto nulla disperde dei caratteri propri della storia e dell’antropologia siciliane.
Così il raccordo chiude un cerchio e la Sicilia, che qui si mostra in filigrana, torna a essere metafora di quell’Italia che ne assume il sentire e forse anche i costumi. Sciascia, come noto, ha, per questo aspetto, aperto un nuovo territorio di analisi e rappresentazione. Amaradio mostra d’esserne consapevole e perciò, con la sicurezza dello scrittore, non esita a entrarvi, a occuparlo e percorrerlo per cercare di spostarne in avanti, almeno un poco, i confini.
Ed è forse anche questa la ragione per cui il romanzo di Amaradio si fa leggere, ci impone d’essere letto, come straordinario documento della nostra contemporaneità, di cui trama l’intero tessuto: il potere sempre tentato dal diventare strapotere e prepotenza; la donna vista, in pagine di forte impatto emotivo, non solo come la parte debole, anche se “eroica” della società, ma oggetto di soprusi nella disperante ricerca del riscatto; il gioco crudele, sino ad apparire gratuito, dell’ingiustizia; la sostanziale immobilità culturale e sociale di una società che tuttavia sembra preda di precipitosi cambiamenti…
A non rendere dispersivo questo repertorio e velleitario il progetto, a darvi coesione di unità e struttura di pensiero storico e non moralistico, fuori dalle secche di un facile sociologismo, provvede la letteratura con i suoi mezzi, qui persino sofisticati: l’organizzazione drammaturgica da “cantastorie”, innanzitutto – che è “invenzione”, “riscoperta” di grande qualità non solo strutturale ma artistica tout court. La scrittura lo dimostra. Non credo sia un caso infatti che proprio la felicità dell’esito mirabilmente nasconda la fatica della realizzazione, che so lunga, qualche volta preoccupata.

Liborio Termine