martedì 3 novembre 2015

INCIPIT DEL 1° CAP. DEL ROMANZO "COSI MAI VISTI NE' 'NTISI"

CAP. 1°


Viscuvu in Catania ci stetti
Innoccenziu Massimu Romanu
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E’ con questi stessi primi versi che comincia un poemetto intitolato "Relazione veridica di tutto quello che successe nella ribellione contro il Vescovo Innocenzo Massimo Romano" composto da tale Fra Gieronimo Pane e Vino.
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L’annu milli seicentu vinti setti
Nusceru a visitari li Citati
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Ma fici cosi mai visti, ne intisi
Processava Parrini e Maritati
Preni e lattanti nelli fossi misi.
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Padre Giovanni dei Cappuccini, in una sua opera sulla storia di Enna, ci narra che il Vescovo Innocenzo era venuto ad Enna per la correzione dei costumi ed, essendo questi "avido del danaro e la sua Corte un puoco libertina, fece fare nuova inquisizione su tutti coloro li quali s'havevano contratti in matrimonio e s'havessero pratticato prima del suo sponsalizio, stante detto Vescovo haver stabilito la pena pecuniaria e, trovando che erano trasgressori molti Castrogiovannesi, prendevano le moglie, stante l'huomini contrattati con le suddette si ritiravano nelle campagne e parte li carceravano nel pubblico Castello e parte nel Palazzo, con operando la Corte molte discolerie..."


Angilo arrancava dietro le due mule che, sovraccariche di paglia, s'inerpicavano lungo il ripido sentiero della Scalazza. Questo era una scorciatoia che portava al paese molto più rapidamente della trazzera che scorreva sinuosa sui fianchi del monte.
Le cicale, che sino a qualche ora addietro con il loro stridio avevano assordato le sue orecchie, ora tacevano. Il sole andava tramontando dietro le colline e indorava la massiccia mole tufacea dell'altopiano.
Di tanto in tanto, allorché egli non riusciva a tenere il passo delle mule per lo spossamento accumulato in una giornata di duro lavoro, si appendeva alla coda di una di esse e si faceva tirare nella salita. Ma appena si accorgeva che la mula cominciava ad affaticarsi eccessivamente, lasciava la presa e ricominciava a seguirla stancamente, cercando di non farsi distanziare.
Spesso si girava a guardare se suo fratello Mariano, che seguiva con altre due mule altrettanto cariche, tenesse il suo passo. Con una grossa vociata, lo incitava a non restare troppo indietro.
Sapeva bene che, dati i brutti tempi che correvano, bisognava rimanere sempre vicini per potersi dare subito manforte in caso di necessità.
D'altro canto era anche ben cosciente che il carico delle mule non era composto soltanto di paglia, come all'apparenza sembrava. Sotto di essa avevano nascosto una bisaccia di farina per ogni mula. Questa era una buona parte di quella necessaria per poter dar da mangiare alla famiglia per alcuni mesi. Avevano ritirato la farina, passando poco prima per il Vallone dei Mulini, da massaro Mattio il mugnaio presso cui avevano depositato a suo tempo il grano dopo la trebbiatura. La nascondevano per evitare sia ogni tentazione ai malviventi che infestavano le strade sia, se possibile, di pagare il dazio all'ingresso della Città. Vero che conoscevano da sempre i dazieri e che questi, il più delle volte, erano stati comprensivi con loro per via di qualche regaluccio personale: ora un galletto, ora una bottiglia di vino, ora quello che si poteva. Tuttavia era meglio non fidarsi, non dare nell'occhio e nascondere tutto ciò che poteva essere desiderato da altri.
Il sole era tramontato del tutto quando arrivarono sul ciglio della scarpata e si avvicinarono ad una delle porte del paese.
I dazieri stavano controllando una lunga fila di muli che li avevano preceduti. Uno di loro fece cenno di aspettare.
Mariano gli si avvicinò e disse ad alta voce che portavano solo paglia e chiese se potessero passare. Poi sussurrò che l’indomani sarebbero ripassati e si sarebbero fermati per salutarli.  E allora questi gli fece cenno di proseguire.
Si avviarono quindi lungo il pianoro verso il quartiere di Fundrisi e si inoltrarono tra i vicoli, che era già buio.
Arrivati nei pressi della loro casa, sentirono un notevole trambusto. Cosa assolutamente inusuale. Si affrettarono a legare le mule alla meglio e, senza scaricarle come avevano sempre fatto, si precipitarono all'interno.
Nella stanza grande, appena rischiarata da un paio di lumi ad olio, trovarono riunita tutta la famiglia e, cosa strana e quindi preoccupante, videro seduto al centro lo zio Peppino, fratellastro della madre, persona ritenuta di rispittu.
Seppero subito che era venuto il Messo del Vescovo per notificare una multa a Mariano. Non capirono bene il perché. Le loro insistenti domande provocarono diverse e contrastanti versioni del fatto.
Si resero conto, infine, che la multa doveva essere pagata poiché Mariano aveva avuto “rapporti carnali” con sua moglie Filippa, prima che fosse stato celebrato il matrimonio, quindi in stato di peccato.
La cosa risultò assolutamente incomprensibile.
Da che mondo è mondo e come tutti gli astanti affermavano, i fidanzati che avessero stipulato una formale promessa di matrimonio erano sostanzialmente autorizzati a frequentarsi. Veniva anche tollerato che avessero qualche … rapporto, secondo gli usi e costumi del tempo e la morale corrente.
I casi di figli nati dopo il fidanzamento e prima del matrimonio erano innumerevoli e ritenuti da sempre perfettamente legittimi. La somma che si pretendeva venisse pagata era enorme e non c'era possibilità alcuna che la si potesse procurare.
Il vociare si fece di nuovo indescrivibile. Le mule vennero dimenticate cariche. Tutti intervenivano a proposito e a sproposito. Chi suggeriva di scappare con tutta la famiglia in campagna o, meglio, nelle montagne. Chi sussurrava che sarebbe stato forse opportuno tentare di corrompere qualcuno che . . . aveva le mani in pasta. Chi, ancora, consigliava di non pagare e, in caso di necessità, di farsi giustizia con le proprie mani.
All'improvviso tuonò la voce roboante dello zio Peppino e tutti tacquero. Suggerì di andare a palazzo a sentire cosa consigliasse don Filadelfo, ché era persona saggia e comprensiva e poi . . . si sarebbe visto.
Quelle poche parole troncarono ogni discussione. Angilo e Mariano si rasserenarono e scaricarono subito le mule. Si lavarono poi da capo a piedi, indossarono il vestito della festa e, in compagnia dello zio Peppino, si avviarono verso il palazzo, nel centro del paese, che era già notte.
Don Filadelfo, che era andato a letto, sentendo che i fratelli erano accompagnati dallo zio Peppino, mugugnando si alzò e li ricevette nell'ingresso.
Sedutisi in cerchio, non sapevano come cominciare il discorso. Stavano zitti, girando e rigirando i berretti tra le mani. Zio Peppino infine ruppe il ghiaccio e, dopo i convenevoli dettati dal rispetto, espose il problema. Seguì ancora un lungo silenzio. Don Filadelfo si schiarì la voce, tossì alcune volte e disse che questa inquisizione che aveva iniziato il Vescovo era certamente ingiusta. Doveva pur esserci un qualche rimedio. In fondo, solo questione di soldi era. Suggerì poi a Mariano, per evitare guai, di non farsi trovare in paese sino a quando il problema non fosse stato chiarito. Filippa e il bambino sarebbero potuti restare in casa. Da noi donne e bambini non si toccano; nessuno ne avrebbe il coraggio.
Tranquillizzati, gli ospiti si alzarono e, profondendosi in ringraziamenti e ossequi, tornarono a casa.
Lungo la strada i tre stettero in silenzio. Mariano azzardò poi che forse sarebbe stato meglio che anche Filippa e il bambino andassero in campagna con lui. Ma Zio Peppino fu categorico. Se don Filadelfo aveva detto così, così si doveva fare. Vuol dire che sapeva.
Nessuno osò discutere ancora, così si doveva fare e così si fece.


Quella era una di quelle rare notti che erano afose anche a Castrogiovanni, sull'altopiano. Quando ciò accadeva, il clima estivo diveniva più intollerabile che alla marina.
Don Filadelfo, che soffriva particolarmente il caldo, non riuscì ad addormentarsi. Si girava e rigirava nel letto e sentiva quasi di odiare la Principessa, come ancora chiamava Rosalia, che accanto a lui invece dormiva russando sonoramente.  Egli rimuginò a lungo su quanto era accaduto nella giornata pensando soprattutto alla visita che aveva ricevuto. Conosceva già da qualche tempo il problema.
Il Vescovo era venuto da più di un mese in visita pastorale. Subito aveva emanato la bolla con cui imponeva una forte pena pecuniaria nei confronti di quelli che avevano convissuto o convivevano in “stato di peccato”, in quanto non sposati. Sembrava che avesse invocato l'applicazione di un editto del Concilio di Trento che vietava ogni rapporto al di fuori del matrimonio. Poiché nessuno aveva mai saputo alcunché di tale legge, tutti si erano convinti che fosse solo un espediente per fare soldi.  E poi quello “stato di peccato”, che veniva sbandierato come uno spauracchio, suscitava le maggiori reazioni.
La sua coscienza si ribellò. Come poteva essere considerato stato di peccato una convivenza accettata e favorita da sempre dalla consuetudine secolare delle famiglie di combinare i matrimoni dei figli sin dalla più tenera infanzia? Come potevano essere considerati in stato di peccato egli stesso e Rosalia per avere convissuto per decenni?
Non l’aveva proprio potuta sposare Rosalia, prima perché aveva già marito e poi, quando era rimasta vedova, per la netta opposizione dei suoi.
Pertanto era stato emarginato oltre che dalla sua stessa famiglia anche dalla società cittadina. Era stato poi anche estromesso, poco alla volta, dall'amministrazione e dalla successione dei più importanti beni familiari.
Avevano cercato di coartare la sua volontà per costringerlo a rompere questo legame ritenuto non consono alla sua dignità. E quanto aveva sofferto lui! Ma non si era mai arreso.
Era stato criticato da tutti sin dall'inizio, quando ancora imberbe aveva cominciato la sua relazione con questa donna che godeva di una pessima fama. Veniva ritenuta addirittura una pervertita posseduta dal diavolo. Infatti, nonostante fosse sposata con il Principe di Roccalumera, di molti anni più anziano di lei, aveva avuto prima e dopo il matrimonio innumerevoli relazioni adulterine e, fatto veramente incredibile, con altre donne, con bambini e, si sussurrava, anche con animali.
Egli aveva saputo tutto e tuttavia non aveva potuto resisterle. 
La loro relazione era iniziata all’improvviso, quasi per gioco; ambedue erano stati travolti da una incredibile e travolgente passione.
Ricordò ancora, con immutata libidine, il loro primo incontro.
Era l’inizio di un’estate di tanti, tanti anni addietro. Si stava recando in campagna seguito da un suo famiglio per andare a sovraintendere alla raccolta del grano. Nonostante fosse ancora prima mattina, il caldo era già intenso. Si era liberato di buona parte degli indumenti superflui, restando a torso nudo e coperto da un grosso cappellaccio a larghe tese che lo riparava dal sole.
Procedendo per un viottolo secondario, che abitualmente percorreva per abbreviare il suo cammino, aveva sentito delle grida provenienti da un casolare poco distante. Rallentato il passo della cavalla per vedere meglio cosa stesse accadendo, aveva notato una donna discinta che usciva dall’abituro inseguita da un uomo seminudo. Costei, con un inusitato balzo felino, era riuscita a montare su un bellissimo cavallo nero che pascolava nelle vicinanze. Si era poi allontanata al galoppo sfrenato dirigendosi verso di lui, mentre l’uomo, che non aveva potuto fermarla, si era subito ritirato in casa.
Sopraggiunta nel viottolo dove egli si era intanto fermato, aveva bloccato il suo cavallo e lo aveva affiancato al suo. Dopo averlo scrutato da capo a piedi, con un accattivante sorriso, aveva fatto avvicinare di più il suo cavallo. Le loro gambe erano arrivate a sfiorarsi e poi a toccarsi ancora. Egli era stato preso da un nodo alla gola. La donna gli era apparsa subito bellissima. Con voce rauca e balbettante, le aveva poi chiesto il suo nome e cosa le fosse accaduto. Aveva appreso così che era la Principessa di Roccalumera e che quell’uomo era uno sciocco impotente che non aveva saputo darle quanto il suo dovere gli avrebbe imposto.
Don Filadelfo era rimasto sbalordito, non sapeva proprio cosa fare. Conosceva per fama la Principessa, sapeva delle sue frequentazioni avventurose di cui tanto si parlava, ma non avrebbe mai immaginato tanto.
La Principessa allora, senza remora alcuna, tastandogli i muscoli, gli aveva sussurrato che certamente egli avrebbe saputo fare meglio il suo dovere di maschio.
Don Filadelfo, sconvolto più che meravigliato, aveva licenziato subito il famiglio che lo accompagnava. Era sceso da cavallo e l’aveva aiutata a fare altrettanto. Quindi l’aveva guidata in un anfratto antistante dove aveva subito fatto il suo dovere, adeguatamente ricambiato con una foga esorbitante e con delle tecniche stravolgenti e sconosciute.                  
Nei giorni successivi, gli incontri-scontri tra i due si erano susseguiti con una frequenza e un ritmo incessanti, con evidente reciproca soddisfazione.
Quando il loro rapporto si fu consolidato, era stata la donna stessa che nottetempo, abbandonata la sua casa, si era trasferita nella masseria dove egli risiedeva abitualmente.
Fortunatamente il Principe, oramai vecchio, non aveva più alcun interesse né a tenersi quella moglie e nemmeno a vendicarsi. Si era liberato di quel legame che da tempo era divenuto un fardello insopportabile.
Nei primi tempi egli era stato tacitamente approvato e invidiato da tutti. La sua relazione veniva considerata una bellissima avventura giovanile. Si riteneva, infatti, che quel legame sarebbe presto cessato. Era notorio quanto la Principessa fosse volubile e desiderosa di sempre nuove esperienze. Egli avrebbe trovato, o forse meglio, gli avrebbero trovato una moglie illibata, di sani principi morali e religiosi, di buona famiglia e con una cospicua dote, come era nelle tradizioni del suo ceto.
Con il passare degli anni erano cominciati i veri problemi, quando quello che era stato previsto da tutti non si era avverato. Aveva ignorato e addirittura rifiutato tutti i possibili partiti che gli erano stati prospettati in matrimonio. Mentre Rosalia, contro ogni previsione, non lo aveva più lasciato per approdare in altri lidi, come aveva sempre fatto anche perché, avanzando negli anni, si era stancata della sua vita tempestosa e aveva deciso di porvi rimedio accasandosi.
Invero egli si era poi intestardito a non voler modificare questo stato di fatto. Dapprima per pigrizia, poi per abitudine più che per amore e, infine, per ribellarsi alle imposizioni altrui. Rosalia invece si era acquietata, quasi adagiata, in questa relazione serena e appagante.
Tuttavia non avevano potuto legalizzare il loro rapporto per il preesistente matrimonio.
Con l’andare del tempo, la loro situazione era però peggiorata sempre di più.
Il padre di lui, perduta ogni speranza di modificare le cose, solo dopo molti anni gli aveva fatto donazione, sia ben inteso con riserva di usufrutto, di una pur modesta parte limitrofa del palazzo di famiglia, dove sarebbe potuto andare ad abitare con Rosalia. Aveva però preteso che venisse eretto un muro divisorio in un certo terrazzo per evitare di vedere dda fimmina. Una sua sorella, dopo la morte del Principe, aveva insistito sempre più pervicacemente perché quello stato di peccato venisse sanato con un matrimonio. Egli aveva ancora rifiutato. Si era reso conto che ciò avrebbe signifi­-      cato rompere definitivamente i rapporti con il padre e con la famiglia e, forse anche, con il resto dei parenti e degli amici.
Con una donna come quella si poteva anche convivere per qualche tempo, ma mai a lungo e definitivamente: a maggior ragione non la si poteva proprio sposare.
Egli aveva, infine, ceduto alle pressioni della sorella e, per cercare di salvare il salvabile, aveva optato per un matrimonio segreto che, proprio perché segreto, non aveva risolto i suoi problemi.

Ora, con la venuta del Vescovo Innocenzo, tutti i guai, che con il tempo sembravano attenuati, erano tornati di colpo a galla.    

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