CAP. 1°
Viscuvu in Catania ci stetti
Innoccenziu Massimu Romanu
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E’ con questi stessi primi versi che comincia
un poemetto intitolato "Relazione veridica di tutto quello che successe
nella ribellione contro il Vescovo Innocenzo Massimo Romano" composto da
tale Fra Gieronimo Pane e Vino.
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L’annu milli seicentu vinti setti
Nusceru a visitari li Citati
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Ma fici cosi mai visti, ne intisi
Processava Parrini e Maritati
Preni e lattanti nelli fossi misi.
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Padre Giovanni dei Cappuccini, in una sua
opera sulla storia di Enna, ci narra che il Vescovo Innocenzo era venuto ad
Enna per la correzione dei costumi ed, essendo questi "avido del danaro e
la sua Corte un puoco libertina, fece fare nuova inquisizione su tutti coloro
li quali s'havevano contratti in matrimonio e s'havessero pratticato prima del
suo sponsalizio, stante detto Vescovo haver stabilito la pena pecuniaria e,
trovando che erano trasgressori molti Castrogiovannesi, prendevano le moglie,
stante l'huomini contrattati con le suddette si ritiravano nelle campagne e
parte li carceravano nel pubblico Castello e parte nel Palazzo, con operando la
Corte molte discolerie..."
Angilo arrancava dietro le due
mule che, sovraccariche di paglia, s'inerpicavano lungo il ripido sentiero
della Scalazza. Questo era una scorciatoia che portava al paese molto più
rapidamente della trazzera che scorreva sinuosa sui fianchi del monte.
Le cicale, che sino a qualche ora
addietro con il loro stridio avevano assordato le sue orecchie, ora tacevano. Il
sole andava tramontando dietro le colline e indorava la massiccia mole tufacea
dell'altopiano.
Di tanto in tanto, allorché egli
non riusciva a tenere il passo delle mule per lo spossamento accumulato in una
giornata di duro lavoro, si appendeva alla coda di una di esse e si faceva
tirare nella salita. Ma appena si accorgeva che la mula cominciava ad
affaticarsi eccessivamente, lasciava la presa e ricominciava a seguirla
stancamente, cercando di non farsi distanziare.
Spesso si girava a guardare se
suo fratello Mariano, che seguiva con altre due mule altrettanto cariche,
tenesse il suo passo. Con una grossa vociata, lo incitava a non restare troppo
indietro.
Sapeva bene che, dati i brutti
tempi che correvano, bisognava rimanere sempre vicini per potersi dare subito
manforte in caso di necessità.
D'altro canto era anche ben
cosciente che il carico delle mule non era composto soltanto di paglia, come
all'apparenza sembrava. Sotto di essa avevano nascosto una bisaccia di farina
per ogni mula. Questa era una buona parte di quella necessaria per poter dar da
mangiare alla famiglia per alcuni mesi. Avevano ritirato la farina, passando
poco prima per il Vallone dei Mulini, da massaro Mattio il mugnaio presso cui
avevano depositato a suo tempo il grano dopo la trebbiatura. La nascondevano
per evitare sia ogni tentazione ai malviventi che infestavano le strade sia, se
possibile, di pagare il dazio all'ingresso della Città. Vero che conoscevano da
sempre i dazieri e che questi, il più delle volte, erano stati comprensivi con
loro per via di qualche regaluccio personale: ora un galletto, ora una
bottiglia di vino, ora quello che si poteva. Tuttavia era meglio non fidarsi,
non dare nell'occhio e nascondere tutto ciò che poteva essere desiderato da
altri.
Il sole era tramontato del tutto
quando arrivarono sul ciglio della scarpata e si avvicinarono ad una delle porte
del paese.
I dazieri stavano controllando
una lunga fila di muli che li avevano preceduti. Uno di loro fece cenno di
aspettare.
Mariano gli si avvicinò e disse
ad alta voce che portavano solo paglia e chiese se potessero passare. Poi
sussurrò che l’indomani sarebbero ripassati e si sarebbero fermati per
salutarli. E allora questi gli fece
cenno di proseguire.
Si avviarono quindi lungo il
pianoro verso il quartiere di Fundrisi e si inoltrarono tra i vicoli, che era
già buio.
Arrivati nei pressi della loro
casa, sentirono un notevole trambusto. Cosa assolutamente inusuale. Si
affrettarono a legare le mule alla meglio e, senza scaricarle come avevano
sempre fatto, si precipitarono all'interno.
Nella stanza grande, appena
rischiarata da un paio di lumi ad olio, trovarono riunita tutta la famiglia e,
cosa strana e quindi preoccupante, videro seduto al centro lo zio Peppino,
fratellastro della madre, persona ritenuta di rispittu.
Seppero subito che era venuto il
Messo del Vescovo per notificare una multa a Mariano. Non capirono bene il
perché. Le loro insistenti domande provocarono diverse e contrastanti versioni
del fatto.
Si resero conto, infine, che la
multa doveva essere pagata poiché Mariano aveva avuto “rapporti carnali” con
sua moglie Filippa, prima che fosse stato celebrato il matrimonio, quindi in
stato di peccato.
La cosa risultò assolutamente
incomprensibile.
Da che mondo è mondo e come tutti
gli astanti affermavano, i fidanzati che avessero stipulato una formale
promessa di matrimonio erano sostanzialmente autorizzati a frequentarsi. Veniva
anche tollerato che avessero qualche … rapporto, secondo gli usi e costumi del
tempo e la morale corrente.
I casi di figli nati dopo il
fidanzamento e prima del matrimonio erano innumerevoli e ritenuti da sempre
perfettamente legittimi. La somma che si pretendeva venisse pagata era enorme e
non c'era possibilità alcuna che la si potesse procurare.
Il vociare si fece di nuovo
indescrivibile. Le mule vennero dimenticate cariche. Tutti intervenivano a
proposito e a sproposito. Chi suggeriva di scappare con tutta la famiglia in
campagna o, meglio, nelle montagne. Chi sussurrava che sarebbe stato forse
opportuno tentare di corrompere qualcuno che . . . aveva le mani in pasta. Chi,
ancora, consigliava di non pagare e, in caso di necessità, di farsi giustizia
con le proprie mani.
All'improvviso tuonò la voce
roboante dello zio Peppino e tutti tacquero. Suggerì di andare a palazzo a sentire
cosa consigliasse don Filadelfo, ché era persona saggia e comprensiva e poi . .
. si sarebbe visto.
Quelle poche parole troncarono
ogni discussione. Angilo e Mariano si rasserenarono e scaricarono subito le
mule. Si lavarono poi da capo a piedi, indossarono il vestito della festa e, in
compagnia dello zio Peppino, si avviarono verso il palazzo, nel centro del paese,
che era già notte.
Don Filadelfo, che era andato a
letto, sentendo che i fratelli erano accompagnati dallo zio Peppino, mugugnando
si alzò e li ricevette nell'ingresso.
Sedutisi in cerchio, non sapevano
come cominciare il discorso. Stavano zitti, girando e rigirando i berretti tra
le mani. Zio Peppino infine ruppe il ghiaccio e, dopo i convenevoli dettati dal
rispetto, espose il problema. Seguì ancora un lungo silenzio. Don Filadelfo si
schiarì la voce, tossì alcune volte e disse che questa inquisizione che aveva
iniziato il Vescovo era certamente ingiusta. Doveva pur esserci un qualche
rimedio. In fondo, solo questione di soldi era. Suggerì poi a Mariano, per
evitare guai, di non farsi trovare in paese sino a quando il problema non fosse
stato chiarito. Filippa e il bambino sarebbero potuti restare in casa. Da noi
donne e bambini non si toccano; nessuno ne avrebbe il coraggio.
Tranquillizzati, gli ospiti si
alzarono e, profondendosi in ringraziamenti e ossequi, tornarono a casa.
Lungo la strada i tre stettero in
silenzio. Mariano azzardò poi che forse sarebbe stato meglio che anche Filippa
e il bambino andassero in campagna con lui. Ma Zio Peppino fu categorico. Se don
Filadelfo aveva detto così, così si doveva fare. Vuol dire che sapeva.
Nessuno osò discutere ancora,
così si doveva fare e così si fece.
Quella era una di quelle rare
notti che erano afose anche a Castrogiovanni, sull'altopiano. Quando ciò accadeva,
il clima estivo diveniva più intollerabile che alla marina.
Don Filadelfo, che soffriva
particolarmente il caldo, non riuscì ad addormentarsi. Si girava e rigirava nel
letto e sentiva quasi di odiare la Principessa, come ancora chiamava Rosalia,
che accanto a lui invece dormiva russando sonoramente. Egli rimuginò a lungo su quanto era accaduto
nella giornata pensando soprattutto alla visita che aveva ricevuto. Conosceva
già da qualche tempo il problema.
Il Vescovo era venuto da più di
un mese in visita pastorale. Subito aveva emanato la bolla con cui imponeva una
forte pena pecuniaria nei confronti di quelli che avevano convissuto o
convivevano in “stato di peccato”, in quanto non sposati. Sembrava che avesse
invocato l'applicazione di un editto del Concilio di Trento che vietava ogni
rapporto al di fuori del matrimonio. Poiché nessuno aveva mai saputo alcunché
di tale legge, tutti si erano convinti che fosse solo un espediente per fare
soldi. E poi quello “stato di peccato”,
che veniva sbandierato come uno spauracchio, suscitava le maggiori reazioni.
La sua coscienza si ribellò. Come
poteva essere considerato stato di peccato una convivenza accettata e favorita
da sempre dalla consuetudine secolare delle famiglie di combinare i matrimoni
dei figli sin dalla più tenera infanzia? Come potevano essere considerati in
stato di peccato egli stesso e Rosalia per avere convissuto per decenni?
Non l’aveva proprio potuta
sposare Rosalia, prima perché aveva già marito e poi, quando era rimasta
vedova, per la netta opposizione dei suoi.
Pertanto era stato emarginato
oltre che dalla sua stessa famiglia anche dalla società cittadina. Era stato
poi anche estromesso, poco alla volta, dall'amministrazione e dalla successione
dei più importanti beni familiari.
Avevano cercato di coartare la
sua volontà per costringerlo a rompere questo legame ritenuto non consono alla
sua dignità. E quanto aveva sofferto lui! Ma non si era mai arreso.
Era stato criticato da tutti sin
dall'inizio, quando ancora imberbe aveva cominciato la sua relazione con questa
donna che godeva di una pessima fama. Veniva ritenuta addirittura una
pervertita posseduta dal diavolo. Infatti, nonostante fosse sposata con il
Principe di Roccalumera, di molti anni più anziano di lei, aveva avuto prima e
dopo il matrimonio innumerevoli relazioni adulterine e, fatto veramente
incredibile, con altre donne, con bambini e, si sussurrava, anche con animali.
Egli aveva saputo tutto e
tuttavia non aveva potuto resisterle.
La loro relazione era iniziata
all’improvviso, quasi per gioco; ambedue erano stati travolti da una
incredibile e travolgente passione.
Ricordò ancora, con immutata
libidine, il loro primo incontro.
Era l’inizio di un’estate di tanti,
tanti anni addietro. Si stava recando in campagna seguito da un suo famiglio
per andare a sovraintendere alla raccolta del grano. Nonostante fosse ancora
prima mattina, il caldo era già intenso. Si era liberato di buona parte degli
indumenti superflui, restando a torso nudo e coperto da un grosso cappellaccio
a larghe tese che lo riparava dal sole.
Procedendo per un viottolo
secondario, che abitualmente percorreva per abbreviare il suo cammino, aveva
sentito delle grida provenienti da un casolare poco distante. Rallentato il
passo della cavalla per vedere meglio cosa stesse accadendo, aveva notato una
donna discinta che usciva dall’abituro inseguita da un uomo seminudo. Costei,
con un inusitato balzo felino, era riuscita a montare su un bellissimo cavallo
nero che pascolava nelle vicinanze. Si era poi allontanata al galoppo sfrenato
dirigendosi verso di lui, mentre l’uomo, che non aveva potuto fermarla, si era
subito ritirato in casa.
Sopraggiunta nel viottolo dove
egli si era intanto fermato, aveva bloccato il suo cavallo e lo aveva
affiancato al suo. Dopo averlo scrutato da capo a piedi, con un accattivante
sorriso, aveva fatto avvicinare di più il suo cavallo. Le loro gambe erano
arrivate a sfiorarsi e poi a toccarsi ancora. Egli era stato preso da un nodo
alla gola. La donna gli era apparsa subito bellissima. Con voce rauca e
balbettante, le aveva poi chiesto il suo nome e cosa le fosse accaduto. Aveva
appreso così che era la Principessa di Roccalumera e che quell’uomo era uno
sciocco impotente che non aveva saputo darle quanto il suo dovere gli avrebbe
imposto.
Don Filadelfo era rimasto
sbalordito, non sapeva proprio cosa fare. Conosceva per fama la Principessa,
sapeva delle sue frequentazioni avventurose di cui tanto si parlava, ma non
avrebbe mai immaginato tanto.
La Principessa allora, senza
remora alcuna, tastandogli i muscoli, gli aveva sussurrato che certamente egli
avrebbe saputo fare meglio il suo dovere di maschio.
Don Filadelfo, sconvolto più che
meravigliato, aveva licenziato subito il famiglio che lo accompagnava. Era
sceso da cavallo e l’aveva aiutata a fare altrettanto. Quindi l’aveva guidata
in un anfratto antistante dove aveva subito fatto il suo dovere, adeguatamente
ricambiato con una foga esorbitante e con delle tecniche stravolgenti e
sconosciute.
Nei giorni successivi, gli
incontri-scontri tra i due si erano susseguiti con una frequenza e un ritmo incessanti,
con evidente reciproca soddisfazione.
Quando il loro rapporto si fu
consolidato, era stata la donna stessa che nottetempo, abbandonata la sua casa,
si era trasferita nella masseria dove egli risiedeva abitualmente.
Fortunatamente il Principe, oramai
vecchio, non aveva più alcun interesse né a tenersi quella moglie e nemmeno a
vendicarsi. Si era liberato di quel legame che da tempo era divenuto un
fardello insopportabile.
Nei primi tempi egli era stato
tacitamente approvato e invidiato da tutti. La sua relazione veniva considerata
una bellissima avventura giovanile. Si riteneva, infatti, che quel legame
sarebbe presto cessato. Era notorio quanto la Principessa fosse volubile e
desiderosa di sempre nuove esperienze. Egli avrebbe trovato, o forse meglio,
gli avrebbero trovato una moglie illibata, di sani principi morali e religiosi,
di buona famiglia e con una cospicua dote, come era nelle tradizioni del suo
ceto.
Con il passare degli anni erano
cominciati i veri problemi, quando quello che era stato previsto da tutti non
si era avverato. Aveva ignorato e addirittura rifiutato tutti i possibili
partiti che gli erano stati prospettati in matrimonio. Mentre Rosalia, contro
ogni previsione, non lo aveva più lasciato per approdare in altri lidi, come
aveva sempre fatto anche perché, avanzando negli anni, si era stancata della
sua vita tempestosa e aveva deciso di porvi rimedio accasandosi.
Invero egli si era poi
intestardito a non voler modificare questo stato di fatto. Dapprima per
pigrizia, poi per abitudine più che per amore e, infine, per ribellarsi alle
imposizioni altrui. Rosalia invece si era acquietata, quasi adagiata, in questa
relazione serena e appagante.
Tuttavia non avevano potuto
legalizzare il loro rapporto per il preesistente matrimonio.
Con l’andare del tempo, la loro
situazione era però peggiorata sempre di più.
Il padre di lui, perduta ogni
speranza di modificare le cose, solo dopo molti anni gli aveva fatto donazione,
sia ben inteso con riserva di usufrutto, di una pur modesta parte limitrofa del
palazzo di famiglia, dove sarebbe potuto andare ad abitare con Rosalia. Aveva
però preteso che venisse eretto un muro divisorio in un certo terrazzo per
evitare di vedere dda fimmina. Una sua sorella, dopo la morte del Principe,
aveva insistito sempre più pervicacemente perché quello stato di peccato
venisse sanato con un matrimonio. Egli aveva ancora rifiutato. Si era reso
conto che ciò avrebbe signifi- cato
rompere definitivamente i rapporti con il padre e con la famiglia e, forse
anche, con il resto dei parenti e degli amici.
Con una donna come quella si
poteva anche convivere per qualche tempo, ma mai a lungo e definitivamente: a
maggior ragione non la si poteva proprio sposare.
Egli aveva, infine, ceduto alle
pressioni della sorella e, per cercare di salvare il salvabile, aveva optato
per un matrimonio segreto che, proprio perché segreto, non aveva risolto i suoi
problemi.
Ora, con la venuta del Vescovo
Innocenzo, tutti i guai, che con il tempo sembravano attenuati, erano tornati
di colpo a galla.
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