Postfazione al romanzo storico
COSI MAI VISTI NE' 'NTISI
nella Sicilia del '600
La cosa mi
era sembrata strana perché se c’è autore lontano da Sciascia, e anche sul piano
della scrittura, quello è proprio Savarese. Perciò un giorno glielo dissi e
Sciascia, con sorniona ironia, mi rispose: “Proprio perché è nella distanza che
si coltiva meglio l’esercizio”.
La distanza, appunto: i conti tornano. E tornano anche per questo
incredibile testo di Eugenio Amaradio che è ugualmente “distante” dai due
scrittori siciliani – e più da Savarese che da Sciascia, quasi a confermare che
l’”ennesità” trova più facile terreno di coltura nei fatti, nella realtà dei
fatti, che non nella letteratura.
Con questo tratto distintivo: che
l’ennese vive i fatti, anche quando sono incredibili e straordinari, senza
enfasi, con straniante e sommessa, sotterranea “normalità” (e mi verrebbe
voglia di dire “naturalità”: quasi fossero opera della natura e non dell’uomo,
della storia, di cui non ha vero sentimento e verso cui prova profonda sfiducia).
E perciò “normalità”, “naturalità”, che a sé sottomette l’eccezionalità e ne
seppellisce la memoria, non consente il fluttuante riemergere del ricordo.
Credo che proprio questa
caratteristica spieghi la ragione per cui l’epica non si adatti all’ennese,
perché non trova innesti né nel modo in cui snoda la sua vita né nella visione
che della vita egli ha. Non sorprende, dunque, se all’ennese manca un sentire
romanzesco e perciò non riesce a fare dell’esistenza, delle trame stesse del
suo svolgersi, “romanzo”.
Non mi sembra davvero un caso che
sia proprio Savarese a darne ampia dimostrazione: lui che, avendo assunto ciò
che è propriamente ennese come materia narrativa, non è mai riuscito a farne un
vero romanzo.
Amaradio ci riesce; il romanzo lo
fa. E ci riesce proprio perché, preso il “fatto”, non lo abbandona un momento,
lo assume come struttura primaria, “fonte” che punteggia lo svolgimento
narrativo e, allo stesso modo, “fonte” dell’invenzione romanzesca che non vi è
mai esterna né vi si sovrappone. Si istituisce così una architettura che ha
qualcosa di eccentrico e di intrigante, e che a me, ennese, siciliano, risulta
molto familiare.
Amaradio opera una scelta
radicale: assume il “fatto” - i
documenti storici e, tra questi, le ottave della Relazione veridica di tutto quello che successe nella ribellione contro
il Vescovo Innocenzo Massimo Romano – come una sorta di partitura musicale
e ne dà scansione, di possibili azioni e personaggi, a introdurre, ciascuna, un
capitolo del romanzo. Non un esergo, una citazione, dunque; ma proprio un
cartello che, simile a un sipario, attende di aprirsi e che il romanzo,
capitolo dopo capitolo, apre.
Il risultato, dicevo, è per me
familiare in quanto questa struttura molto mi ricorda i quadri del cartellone
del cantastorie ciascuno dei quali si apre al “cunto”, che nella voce e nel
corpo del cantastorie si fa narrazione e
drammatizzazione. Allo stesso modo, appunto, in cui, nel testo di Amaradio, il
reperto storico, il documento che dà certezza del fatto, nel suo fare da
“introduzione”,diventa via via sipario e scenografia che scopre e anima lo
svolgimento romanzesco a cui è sostanza l’uomo, il suo sentire, il suo patire.
Non era facile istituire, con
tanta eleganza e con infinito amore per questa terra e i suoi uomini, una
“distanza” che fosse anche un raccordo - e non solo tra il passato e il
presente. Proprio “raccordo” – cioè continuità – che non disperde il passato
nell’evanescenza di una pura allegoria del presente, ma lo pone come radice
prima, causa mai rimossa dei vizi, dei pregiudizi, delle devastazioni dell’oggi
– e perciò autentico specchio su cui il presente si riflette: e, temo, senza
che realmente si veda.
Nella scelta di questo impianto,
molto delicato e certamente non facile, non manca il peso della lezione
manzoniana. Ma con una curiosa particolarità che Amaradio assume con felice
intuito e porta avanti sino alle estreme conseguenze: il rinserrare la
narrazione – e perciò i temi, le azioni, i personaggi – dentro un circuito
storico che è sì nazionale (per quella “linea del caffè” che ha percorso
l’intero Stivale e si è allungata sin oltre i suoi confini), ma lo è in quanto
nulla disperde dei caratteri propri della storia e dell’antropologia siciliane.
Così il raccordo chiude un
cerchio e la Sicilia, che qui si mostra in filigrana, torna a essere metafora
di quell’Italia che ne assume il sentire e forse anche i costumi. Sciascia,
come noto, ha, per questo aspetto, aperto un nuovo territorio di analisi e
rappresentazione. Amaradio mostra d’esserne consapevole e perciò, con la
sicurezza dello scrittore, non esita a entrarvi, a occuparlo e percorrerlo per cercare
di spostarne in avanti, almeno un poco, i confini.
Ed è forse anche questa la
ragione per cui il romanzo di Amaradio si fa leggere, ci impone d’essere letto,
come straordinario documento della nostra contemporaneità, di cui trama
l’intero tessuto: il potere sempre tentato dal diventare strapotere e
prepotenza; la donna vista, in pagine di forte impatto emotivo, non solo come
la parte debole, anche se “eroica” della società, ma oggetto di soprusi nella
disperante ricerca del riscatto; il gioco crudele, sino ad apparire gratuito,
dell’ingiustizia; la sostanziale immobilità culturale e sociale di una società
che tuttavia sembra preda di precipitosi cambiamenti…
A non rendere dispersivo questo
repertorio e velleitario il progetto, a darvi coesione di unità e struttura di
pensiero storico e non moralistico, fuori dalle secche di un facile
sociologismo, provvede la letteratura con i suoi mezzi, qui persino
sofisticati: l’organizzazione drammaturgica da “cantastorie”, innanzitutto –
che è “invenzione”, “riscoperta” di grande qualità non solo strutturale ma
artistica tout court. La scrittura lo dimostra. Non credo sia un caso infatti
che proprio la felicità dell’esito mirabilmente nasconda la fatica della
realizzazione, che so lunga, qualche volta preoccupata.
Liborio Termine
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